E adesso gli ambientalisti alzano il tiro. Dopo il fallimento del referendum sulle trivelle hanno deciso di diffidare il ministero dello Sviluppo economico (Mise) affinché le piattaforme offshore non più attive vengano smantellate al più presto.  Già, perchè durante il dibattito che ha preceduto la consultazione si è avanzato il sospetto che più di un impianto tra quelli entro le 12 miglia, oggi vietati dalle nuove norme e che la Legge di Stabilità ha invece prorogato a vita, non produrrebbero più alcunché da anni. E allora perché continuare a tenerle in mare? Ma, soprattutto, perchè non pretendere che chi ha sfruttato i giacimenti oggi esauriti non sia chiamato a sostenere i costi della bonifica e del ripristino dei luoghi?

TUTTI A CORTE L’iniziativa di Greenpeace, Wwf e Legambiente suona come una resa dei conti. Le tre associazioni sono in attesa di formalizzare un reclamo alla Commissione europea da cui si attendono che dichiari incompatibile la “sanatoria” inserita dal governo nella Legge di Stabilità (e fatta salva grazie al mancato raggiungimento del quorum al referendum) con le norme nazionali e comunitarie. Ma nel frattempo hanno fatto partire le diffide, poste non casualmente all’attenzione anche della procura generale della Corte dei Conti. Così, pochi giorni fa, il 10 maggio, hanno scritto al direttore generale delle risorse minerarie e energetiche del Mise, Franco Terlizzese, e per conoscenza anche al direttore generale per il Trasporto Marittimo e le Acque Interne del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maria Enrico Puija, nonché alle Capitanerie di Porto competenti (Venezia, Ravenna, Rimini, Pesaro, San Benedetto del Tronto, Ortona Napoli e Crotone). Per chiedere che vengano rigettate  dieci istanze di proroga delle concessioni presentate prima della modifica intervenuta con la Legge di Stabilità 2016. Ma di quali concessioni si tratta?

IN FILA PER ENI Gli impianti elencati dalle tre associazioni riguardano una licenza della società Adriatica e nove richieste di proroga riconducibili (in tutto o in partecipazione con altri) ad Eni. Poi c’è la questione delle piattaforme non produttive come le concessioni situate entro la fascia di interdizione delle 12 miglia nel Golfo di Venezia. Le tre associazioni chiedono, per precauzione, che se ne faccia carta straccia dal momento che non sono “mai diventate attive” e attualmente “prive di piattaforme”.  Ma, soprattutto, chiedono al ministero di mettere a punto una mappa in modo che vengano individuati e indicati uno per uno gli impianti attivi e quelli esauriti. Costringendo in questo caso i privati a mettere mano al portafoglio per lo smantellamento delle piattaforme estrattive non più attive.

IMPATTO PERICOLOSO “Le sottoscritte associazioni – si legge nella diffida –  sono interessate, in particolare, allo smantellamento e ai conseguenti interventi di bonifica e ripristino dei luoghi anche alla luce del fatto che, secondo loro elaborazioni su dati Unmig (Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse del Mise, ndr) aggiornati alla data odierna, 42 delle 88 piattaforme o strutture emerse localizzate nella fascia offlimits delle 12 miglia (il 47,7% del totale) sono state costruite prima del 1986 e quindi non sono stata mai sottoposte a Valutazione di Impatto Ambientale.  Si aggiunga che il mantenimento delle concessioni per tali strutture emerse, se non più produttive e non rimosse, impedisce l’accesso per altri usi ad aree demaniali marine localizzate nelle acque territoriali italiane e che le piattaforme offshore, facenti capo a dette concessioni, costituiscono un ostacolo e un rischio per la sicurezza e per la navigazione“.

 

 

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