Avrebbero dovuto raccontare i colloqui investigativi andati in onda nel luglio del 1994 all’interno del supercarcere di Pianosa: da una parte c’era l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, dall’altra Vincenzo Scarantino, il pentito fasullo della strage di via d’Amelio. Insieme a loro anche i poliziotti Domenico Militello e Giacomo Piero Guttadauro, detto Giampiero, inviati per occuparsi della sicurezza di Scarantino, che, però, oggi hanno deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere davanti alla corte d’Assise di Caltanissetta che sta celebrando il processo Borsellino Quater.

Militello e Guttadauro, infatti, sono gli ultimi indagati nel nuovo filone d’inchiesta aperto dalla procura di Caltanissetta per il depistaggio delle indagini sulla strage che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e a cinque uomini della scorta. Ad accusarli è lo stesso Scarantino: è in quei dieci giorni di colloqui, infatti, che il balordo della Guadagna sarebbe stato costretto a memorizzare la falsa ricostruzione della strage.

Un racconto che sarà poi recitato davanti ai pm, con il risultato di depistare l’intera inchiesta sull’eccidio di via d’Amelio. “Io mi lamentavo perché non sapevo niente a Pianosa lo dissi a Giampiero e a Mimmo Militello che non c’entravo nulla con la strage, ma non mi prendevano sul serio”, ha raccontato Scarantino, spiegando che era La Barbera (deceduto nel 2012) a spiegargli cosa avrebbe dovuto riferire ai magistrati, mentre i due poliziotti gli “davano coraggio”. Che il balordo della Guadagna non avesse potuto inventare da solo il complesso e fasullo iter di preparazione della strage ne sono convinti anche i pm Stefano Luciani e Gabriele Paci, e infatti nella richiesta di archiviazione per i funzionari Mario Bo, Salvatore La Barbera e Vincenzo Ricciardi (indagati e prosciolti) sottolineano come l’ex questore La Barbera fosse il vero “protagonista del depistaggio”.

Ecco perché adesso l’accusa ha citato la deposizione di Militello e Guttadauro, che, però, essendo indagati di reato connesso, hanno preferito non rispondere alle domande delle parti. Non chiarendo, quindi, cosa accadde in quell’estate del 1994, quando dopo ben dieci giorni di colloqui investigativi, Scarantino venne accompagnato a Palermo per ricostruire i vari passaggi preparatori della strage. “Mi hanno prelevato all’aeroporto di Boccadifalco per fare i sopralluoghi e ho esplicitamente detto che non sapevo nulla della strage. Poi il dottor La Barbera, Militello e Giampiero mi hanno mostrato le foto dei posti, sicché sono stato in grado di descriverli negli interrogatori fatti ai magistrati”, ha detto il picciotto della Guadagna, imputato per calunnia nel processo Borsellino Quater insieme agli altri due falsi pentiti, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, mentre Salvo Madonia e Vittorio Tutino sono accusati di strage. Già nel 1998, Scarantino aveva parlato in aula, durante il processo Borsellino bis, di alcune confidenze, raccolte da “Giampiero”, nel periodo della sua collaborazione: il poliziotto gli avrebbe parlato di una Fiat 126 – lo stesso modello utilizzato per la strage di via d’Amelio – che la polizia avrebbe fatto esplodere sulla collina di Bellolampo, a Palermo. “Mi disse che fecero questa prova: portarono la macchina a Bellolampo e la imbottirono per vedere quanto esplosivo ci voleva per farla saltare”. Come dire che la pista dell’auto rubata da Candura e poi fatta esplodere per uccidere Borsellino era stata tutta costruita in ambiti investigativi: una ricostruzione quasi fantascientifica, alla quale la corte non diede alcuna credibilità.

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