Nella notte i dirigenti di Confcooperative erano fuori dalla grazia di dio. Così come quelli di Federcasse, l’associazione che riunisce le 376 banche di credito cooperativo (4.000 sportelli in 2.700 Comuni). Motivo: la riforma delle Bcc approvata nella tarda serata di mercoledì in Consiglio dei ministri stravolgendo il testo di autoriforma presentato dalle stesso mondo del credito cooperativo. “È stato Luca Lotti”, si lamentavano gli interessati. Fonti di governo hanno confermato l’interessamento del potente sottosegretario di Palazzo Chigi al dossier concluso con la modifica del decreto banche.

I toni, ieri, non erano migliorati: “Assistiamo a intese col governo stravolte per assecondare altre necessità nel progetto di riforma delle Bcc. Abbiamo lavorato per un anno col Mef e Bankitalia, abbiamo superato le divisioni interne per rafforzare il sistema e invece si tradiscono le intese: si va nella direzione opposta, assicurando tentazioni opportunistiche”. A che si riferisce Confcooperative (corsivi nostri, ndr)? Per capirlo, bisogna entrare nel merito.

No alla holding unica, soldi di tutti privatizzati
La riforma approvata dal governo prevede questo: entro 18 mesi le Bcc dovranno tutte passare sotto l’ombrello di una holding con capitalizzazione superiore al miliardo, che dovrà quotarsi in Borsa conservando la maggioranza in mano alle cooperative. Questo consentirà di rafforzare il patrimonio, mantenendo però l’autonomia delle singole Bcc, le vecchie casse rurali che per Statuto hanno fini mutualistici e sono legate a specifici vincoli territoriali. Questa la riforma – sponsorizzata dalla Bce e da Bankitalia – che la cooperazione italiana aveva finito per accettare (il rischio che questo stravolgimento sia incostituzionale, però, resta).

Solo che non tutti gli istituti gradivano il dissolvimento nell’unico gruppo. Si è tentata la via – più sensata – di proporre la creazione di più holding su base regionale o macroregionale, ma si è andati molto oltre aggiungendo una via d’uscita diversa e più scivolosa: le Bcc che non vogliono sottomettersi alla holding possono diventare società per azioni a patto di avere un patrimonio superiore ai 200 milioni. A questo fine, le nuove società possono tenersi le “riserve indivisibili” pagando all’erario il 20%. Brutta scelta: quel patrimonio è costruito grazie a generose esenzioni fiscali dovute al vincolo di mettere a riserva almeno il 70% degli utili delle Bcc.

Quei soldi sono dei soci, servono agli scopi mutualistici e territoriali delle banche e sono stati pagati nei fatti da tutti i contribuenti: darli a una Spa dietro pagamento del 20% è una privatizzazione di un bene comune. Quel patrimonio, peraltro, in futuro non sarà neanche più vincolato a territorio e sociale.

I movimenti fiorentini e i molti amici di Matteo
La domanda, allora, è perché s’è fatta questa scelta. Come detto, alcuni istituti vogliono conservare la loro autonomia: tra questi si segnala l’attivismo di quelli toscani, che cercano di creare un nuovo polo regionale. Tra quelli che hanno manifestato la loro perplessità sulla holding unica, c’è il Gruppo Cabel, che raccoglie 9 Bcc tra Toscana e alto Lazio. La più grande tra queste è quella di Cambiano: la più antica banca di credito cooperativo italiana, la quarta per grandezza (Mediobanca) e tra le poche (“una decina”, dice Pier Carlo Padoan) che ha da sola i requisiti per sottrarsi alla riforma. La Bcc di Cambiano ha sede a Empoli ed è renzianissima, anzi lottianissima visto che dirigenti ne è Marco Lotti, padre del sottosegretario. Il presidente è Paolo Regini, già sindaco Ds di Castelfiorentino, marito della senatrice Pd Laura Cantini, sostenitore del premier dalle primarie del 2012, quando Cambiano fu la banca d’appoggio per il fund raising: già nel 2009, però, era stato l’istituto a concedere a Renzi il mutuo per la campagna elettorale da sindaco.

Ma non c’è solo Cambiano. Sopra i 200 milioni di patrimonio sta pure Chiantibanca – reduce da un giro di acquisizioni in regione, tra le quali spicca il fu Credito cooperativo fiorentino, già presieduto da Denis Verdini e messo in liquidazione coatta – che dovrebbe essere parte della futura banca renziana di Toscana creata dalla riforma Lotti. In primavera a presiedere Chiantibanca – e da lì l’intero nuovo gruppo – dovrebbe arrivare l’unico vero curriculum di cui disponga l’inner circle renziano nel settore: il fiorentino Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del board Bce, che s’è pubblicamente detto “disponibile” all’incarico nell’istituto.

Nel frattempo, Bini Smaghi è presidente della banca d’affari francese Société Générale, che è stato uno degli advisor per la vendita delle quattro nuove banche create il 22 novembre al posto delle decotte Pop Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti. Chissà che nel futuro gruppo toscano non finisca pure qualche pezzo della vecchia Etruria, già banca renziana (o boschiana): per ora si sa che, sul tavolo di Société Générale, sono arrivate “una trentina di manifestazioni di interesse da parte di gruppi italiani e stranieri”. Anche se non fosse a questo giro, saranno vendute in un secondo momento alcune controllate di Etruria non disprezzabili come Banca Federico del Vecchio e Oro Italia Trading spa. Si rischia, direbbe Massimo Giannini, un nuovo “rapporto incestuoso”, ma stavolta plurimo.

Da Il Fatto Quotidiano del 12 febbraio 2016

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