Terza svalutazione in tre giorni per lo yuan da parte della Banca centrale cinese. La People’s Bank of China, ancora una volta senza preavviso, ha aggiustato il tasso di cambio giornaliero in ribasso di un altro 1,1% rispetto al dollaro Usa. Martedì la banca aveva svalutato la prima volta la moneta cinese dell’1,9%, mercoledì dell’1,6%. Una terza operazione di svalutazione della moneta in poche ore era assolutamente inattesa, dato che già la prima era stata definita dalle autorità cinesi come una misura “una tantum” con l’obiettivo di allineare lo yuan ai valori di mercato. Stavolta però i mercati hanno però assorbito il colpo senza scossoni: dopo il rimbalzo delle borse asiatiche, tutte le piazze europee hanno chiuso in rialzo, con Milano maglia rosa a +1,56%.

Ha aiutato anche il fatto che mercoledì Standard&Poor’s abbia gettato acqua sul fuoco, parlando di “correzione tecnica” e negando che si tratti dell’inizio di una guerra valutaria. Tuttavia sono tutt’altro che superate le preoccupazioni per il possibile impatto sulla ripresa europea. Le mosse della Cina mettono infatti i bastoni tra le ruote alla Banca centrale europea e al suo piano di acquisto di titoli di Stato mirato a far ripartire l’inflazione e la crescita dell’Eurozona. Il motivo è presto spiegato: per l’Occidente, lo yuan debole si traduce attraverso diversi canali (costo delle materie prime e delle merci importate) in un calo del livello dei prezzi. Il contrario rispetto all’obiettivo di Mario Draghi. A settembre, peraltro, la Fed statunitense si appresta ad alzare i tassi di interesse, visto che l’economia Usa è ormai ripartita. L’insieme di questi fattori mette a repentaglio la fragile ripresa dell’Eurozona. “Gli sviluppi finanziari in Cina potrebbero avere un impatto negativo superiore al previsto a causa del ruolo importante che ha questo paese nel commercio globale”, si legge nelle minute della riunione di luglio della stessa Bce, che in quel momento si riferiva solo alla volatilità del mercato finanziario cinese e non scontava ancora l’effetto della svalutazione. Questo rischio, sottolinea Francoforte, “potrebbe essere aggravato dagli effetti negativi dell’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti sulla crescita dei paesi emergenti”.

Nel frattempo le operazioni di Pechino iniziano ad avere ripercussioni in ambito politico. “Forse su una sola cosa Repubblicani e Democratici concordano pienamente in questa campagna per le presidenziali americane: sul piano economico la Cina gioca fa un gioco sleale”, scrive il Washington Post, spiegando che, all’indomani della svalutazione della moneta cinese, i politici statunitensi dei due schieramenti si sono mostrati compatti nel ritenere l’intervento un oltraggio. Un fronte unito contro la politica di manipolazione dello yuan ad appena un mese dall’arrivo negli Stati Uniti del presidente Xi Jinping: la prima visita di Stato di un presidente cinese alla Casa Bianca.

Restano poi le preoccupazioni per i possibili effetti della svalutazione sulle importazioni verso la Cina (destinate a diventare meno convenienti) e il conseguente impatto sui conti economici delle aziende occidentali che vendono di più nella Repubblica popolare. Ma secondo Paul Gruenwald, capo economista della regione Asia-Pacifico di S&P, “le esportazioni dipendono più dalla domanda estera, il tasso di cambio gioca un ruolo secondario. Non c’è ragione di pensare che questa relazione sia cambiata”. Inoltre, secondo l’agenzia di rating, la svalutazione dello yuan potrebbe evitare un aumento dei rischi al rating sovrano del Paese.

Ufficialmente l’obiettivo della più imponente svalutazione della moneta nazionale degli ultimi 20 anni, come ha spiegato il vice governatore della Pboci Yi Gang, “è quello di lasciare che sia il mercato a decidere il tasso di cambio della valuta cinese. E la Pboc si asterrà da interventi regolari sul mercato dei cambi”, che verranno mantenuti a un livello “più o meno stabile” e “ragionevole”.

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