A parte gli addetti ai lavori pochi sanno che in Senato sta per essere approvata una legge delega i cui effetti potrebbero essere di grande rilievo. Riguarda il terzo settore, ovvero tutte quelle organizzazioni tramite cui la nostra società si attiva per risolvere problemi di interesse pubblico senza dipendere necessariamente dallo Stato. E senza mettere al primo posto una motivazione economica. Non è un settore marginale e non si occupa solo di situazioni di marginalità, a dispetto di ciò che si è abituati a pensare. I numeri sono rilevanti: 301.191 organizzazioni e quasi un milione di addetti. Considerando solo le cosiddette imprese sociali di fatto, cioè le organizzazioni del terzo settore in cui l’attività imprenditoriale è prevalente, gli occupati sono oltre 700.000 e gli utenti serviti circa 6 milioni.

In poche parole, ogni giorno in Italia c’è una parte consistente del paese che si rivolge al terzo settore per soddisfare un bisogno di salute, di assistenza, di cura dell’ambiente e del patrimonio culturale, oltre ad altri bisogni sociali in continua crescita. Domande alle quali il settore pubblico non riesce più a rispondere da solo, ma per le quali anche la logica del profitto non funziona. Motivo che spiega perché il terzo settore cresce. Con una tendenza diffusa in tutti i paesi più avanzati, che nasce dalle difficoltà dei bilanci pubblici, dagli effetti indesiderati della privatizzazione dei servizi pubblici, ma soprattutto dalla richiesta che sale dal basso di dare spazio a nuove forme di assunzione di responsabilità da parte della società civile.

Il punto, a mio avviso, è che il potenziale da sviluppare è ancora più grande. Per questo è importante che la legge-delega sia chiara negli indirizzi ed efficace nei meccanismi. Il suo risultato si misurerà sulla capacità di aumentare il ruolo della responsabilità attiva dei cittadini e delle organizzazioni sociali nella ricerca di soluzioni a problemi pubblici. Non per sostituirsi allo Stato, ma per mobilitare più energie e quindi aumentare l’efficacia delle risposte. In concreto questo significa liberare il potenziale del terzo settore, amplificandone il raggio d’azione e aumentando significativamente le risorse messe in gioco. Risorse – a scanso di equivoci – che non bisogna aspettarsi dalle esauste casse dello Stato ma che vanno reperite mettendo in movimento a fini sociali una parte della ingente ricchezza privata presente nel paese. Fugando però una volta per tutte il sospetto – alimentato anche di recente sulla stampa da un dibattito strumentale – che l’intenzione retrostante alla nuova legge consista nell’aprire al capitale le praterie del settore sociale, perché possa lanciarsi nelle sue scorribande speculative. Perciò è importante eliminare ogni ambiguità, anche dalla legge-delega. Sciogliendo alcuni nodi che la discussione degli scorsi mesi non è riuscita a risolvere, come emerge da un testo che risente di un’impostazione non del tutto coerente. Due in particolare sono gli interventi necessari: da un lato va superata l’idea, tautologica e quindi inutile, che l’impresa sociale sia quella che produce un impatto sociale, dall’altro occorre smetterla di ricercare soluzioni che permettano alle imprese sociali di distribuire utili in una misura che le renda appetitose per gli investitori.

Mi spiego, per quanto riguarda il primo punto. Estendere il concetto di impresa sociale fino a sbiadirne il significato è una tentazione che va contrastata. Su questo la legge-delega farebbe bene a non lasciare nessun margine al dubbio. Dire che le imprese sono sociali in quanto producono un impatto sociale è una colossale banalità. Messa così, tutte le imprese sono sociali: Ryanair sarebbe uno dei campioni del settore, visto che i voli low cost hanno trasformato in profondità le nostre società. E altrettanto si potrebbe dire di Google, perché mettendo a disposizione gratuitamente il suo motore di ricerca consegna nelle mani di ognuno uno straordinario strumento di empowerment. Così come si può parlare di potente impatto sociale anche in relazione ad ogni nuovo farmaco che l’industria immette sul mercato, se fornisce una soluzione a malattie di grande diffusione sociale.

In altre parole, se mettiamo l’accento sull’impatto non si va molto lontano perché la definizione è talmente generica da risultare inutilizzabile. Quasi tutte le imprese – salvo forse l’industria delle armi, il racket e il sequestro di persona – possono a buon diritto reclamare che il loro impatto è sociale e al tempo stesso positivo. Per questo ogni volta che sento parlare di impact investing mi viene da reagire come il rag. Fantozzi all’ennesima replica della Corazzata Potemkim: il fatto che sia trendy, che venga dalla City e che vada di moda in qualche salotto non significa che sia la priorità su cui concentrarsi. Evitiamo il conformismo di formule che suonano sexy e prendiamo piuttosto un’altra strada, più semplice e cristallina. Per qualificare l’impresa come sociale, oltre alla finalità, conta il modo in cui sono organizzate, gestite, governate, e a cosa destinano i propri profitti. Rovesciando l’approccio della finanza tradizionale, da cui l’impact investing non si allontana, è sociale l’impresa che produce benefici sociali, e quindi in cui il ritorno economico è funzionale a questa missione. L’obiettivo dell’impresa sociale non è quindi massimizzare il profitto ma massimizzare il ritorno sociale.

Di conseguenza, per venire al secondo punto, credo che la questione di remunerare il capitale di chi investe nelle imprese sociali sia un problema mal posto. Intanto perché chi cerca guadagni investendo nel sociale ha già a disposizione strumenti più garantiti e remunerativi, come ad esempio i bond sociali. Mentre l’accoglienza non esaltante che gli investitori italiani hanno riservato al venture capital dovrebbe rendere molto prudenti nel riproporre questo strumento nelle forme del social venture. In una logica di ritorno dell’investimento, non credo che fuori dalla porta delle imprese sociali italiane ci sarebbe la fila di investitori desiderosi di mettere a disposizione il proprio denaro. Ecco perché – ed è il punto centrale della questione – secondo me occorre che nel rapporto con il terzo settore si abbandoni la logica del ritorno dell’investimento.
Perciò, per dirla in modo ancora più esplicito, ritengo che in tema di distribuzione degli utili la legge-delega non dovrebbe scostarsi da quanto già previsto per le cooperative sociali, limitandosi ad ampliare quel meccanismo a tutte le organizzazioni dell’economia sociale. Gli utili vanno interamente investiti nell’impresa sociale stessa ovvero redistribuiti in misura minima, con percentuali che non lascino dubbi riguardo al fatto che l’obiettivo non è il ritorno finanziario. Basterebbe infatti il sospetto che gli investimenti nel sociale possano essere un’altra forma che la finanza sfrutta a vantaggio di pochi per decretarne il fallimento.

Su questo credo che il testo della legge-delega faccia bene a proporre il modello previsto per la cooperazione sociale, così che sia chiara l’estraneità al terzo settore di ogni logica speculativa ma al tempo stesso vi sia apertura al contributo che la cultura dell’impresa for profit può portare in termini di managerialità e attenzione per la sostenibilità economica.

Il terzo settore non va visto come una nuova area alla quale estendere le aspettative di rendimento di un’economia finanziarizzata. Deve avvenire invece l’opposto: le risorse finanziarie vanno portate dentro il terzo settore per incrementare l’impatto delle sue organizzazioni, per metterle in condizione di essere più incisive rispetto alle grandi questioni sociali. Le risorse finanziarie vanno messe a disposizione dell’economia sociale e non viceversa. Servono per sostenere progetti di rilievo nazionale, per creare più occupazione, per affrontare temi sempre più complessi. E il capitale investito nel sociale deve trovare il suo tornaconto non nella bottom line dei bilanci ma nel miglioramento del clima sociale e del contesto pubblico da cui dipende la stessa prosperità delle imprese.

Da imprenditore, e da imprenditore anche sociale, il problema che oggi vedo più urgente è quello di portare risorse private ad un settore che ha un grande potenziale di crescita. Risorse che però vengono messe a disposizione senza altro interesse che quello per lo sviluppo sociale. Senza aspettarsi in cambio nient’altro che un contributo alla crescita di questo paese. Rendendosi conto che anche questo è un modo per ricavare un beneficio dal proprio investimento, dove però più che i dividendi del capitale conta il contributo a rendere più accogliente la società in cui viviamo e lavoriamo.

di Vincenzo Manes, consigliere pro bono del presidente del Consiglio per il terzo settore nonché presidente di fondazione Dynamo Camp e del gruppo Intek

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