Costruire insediamenti artificiali in mare, per imporre le proprie rivendicazioni territoriali. La Cina sta “creando una grande muraglia di sabbia nel Mar Cinese Meridionale, causando preoccupazioni sulle sue intenzioni”. Lo dice l’ammiraglio Harry Harris Jr, comandante della flotta statunitense nel Pacifico, che ricorda come le rivendicazioni contrapposte di diverse nazioni che si affacciano su quel mare stiano “aumentando le tensioni regionali”.

“Grande muraglia di sabbia” è una locuzione evocativa, così come “grande muraglia di fuoco” (o “grande firewall”) per designare le tecnologie cinesi che limitano la navigazione su internet. Il concetto di nuovo conio trasmette un’idea di prevaricazione e serve a Washington a giustificare il fatto che circa il 60 per cento della sua marina militare verrà dislocato nell’area dell’Asia-Pacifico e per riaffermare il proprio ruolo di “gendarme globale”.

Ma torniamo alla Cina. Cos’è la grande muraglia di sabbia? I cinesi stanno facendo ciò che già fanno sulla terraferma: cementificano. Creano isole artificiali pompando sabbia sulle barriere coralline vive e poi ci costruiscono sopra una pavimentazione con il calcestruzzo. Insomma, immaginate la bonifica dell’Agro Pontino, però nel bel mezzo del mare, oppure un abuso edilizio, però su una barriera corallina. Il tutto per creare propri insediamenti in aree contese.

Secondo esperti Usa, la Cina utilizzerebbe il metodo della cazzuola anche per ragioni strategiche: dato che non possiede ancora una portaerei degna di questo nome, costruisce piste d’atterraggio in mezzo al mare. A febbraio sono comparse foto satellitari che rivelavano un ampliamento del genere sulla Hughes reef, che si trova a 210 miglia dalle coste filippine e a 660 da quelle cinesi. L’estensione territoriale equivale a circa 6 ettari, cioè 14 campi da calcio. Di conseguenza, anche Manila ha ricominciato a costruire insediamenti nelle acque che ritiene sue oppure a dislocare mini-guarnigioni su relitti semi-emersi nei pressi di qualche secca.

La Cina e Taiwan rivendicano buona parte del Mar Cinese Meridionale per autoproclamate ragioni storiche. In questo, sono unite dal principio di “una sola Cina”. A prescindere da quale delle due rappresenti il governo legittimo del Paese, entrambe concordano nel tracciare una linea delle proprie acque territoriali che sfiora le coste dei dirimpettai: Vietnam, Filippine, Malaysia, Brunei. È la “linea dei nove segmenti” (jiu duan xian), che i vietnamiti hanno prontamente ribattezzato “linea della lingua di mucca”, proprio perché “lecca” i profili delle coste altrui. Non che gli altri Paesi siano particolarmente uniti: le conclamate “acque territoriali” di Vietnam, Filippine e Malaysia si sovrappongono proprio al centro del Mar Cinese Meridionale, mentre il rettangolino di mare che il Brunei considera suo è in gran parte rivendicato anche dagli altri tre contendenti (oltre che dalle due Cine).

La sovrapposizione non è solo territoriale. Complici definizioni storiche imprecise e traduzioni errate che risalgono al secolo scorso, isole e scogli (terre emerse) si sovrappongono nelle rivendicazioni a fondali, secche e bassifondi. È questo per esempio il caso del punto più meridionale preteso dalla Cina, noto come Beting Serupai in malese, James Shoal in inglese e Zengmu Ansha in cinese, che sta a 107 chilometri dalle coste del Borneo e a 1.500 da quelle cinesi. Il giornalista e storico britannico Bill Hayton racconta nel suo The South China Sea che, spaventata da voci di annessione delle isole Spratly alla Francia e impossibilitata a far valere le proprie rivendicazioni con la forza, la Cina istituì nel 1933 una commissione che prese una mappa britannica e mise nero su bianco, traducendo semplicemente dall’inglese i nomi dei “territori” che giudicava propri: Zengmu è infatti la trascrizione di “James”, anche se oggi i cinesi preferiscono tradurlo con “bisnonna”.

Ma più interessante è notare che il “shoal” inglese significa secca o fondale, e infatti James Shoal sta 22 metri sotto il livello del mare, mentre i traduttori di Pechino lo scambiarono per un territorio emerso. Ottant’anni dopo, nel 2014, ci ritroviamo militari cinesi che piantano una stele in mezzo al mare giurando che difenderanno con la propria vita il “territorio cinese della Bisnonna”, che apparterrebbe alla madrepatria da tempo immemore. E magari, domani, ci costruiranno un bell’aeroporto.

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