Negli ultimi mesi il premier Matteo Renzi ha più volte dichiarato: “Bisogna abbattere il precariato!“.

Un’affermazione non proprio azzeccata: è la precarietà che andrebbe eliminata e non il corpo sociale che  subisce tale condizione. Il che la dice lunga sulla capacità di analisi della classe dirigente di questo Paese.

Ad ogni modo, se l’obiettivo era ed è, invece, quello di abbattere il precariato, allora questa riforma va certamente nella giusta direzione.

La riforma del mercato del lavoro proposta e approvata (va però sottolineato che il testo completo del Jobs Act non c’è ancora) da questo governo, in un solo anno (questa è la tempistica della celere azione normativa) riesce ad azzerare 40 anni di lotte e di conquiste dei lavoratori: è di loro che si parla, e tale riforma produrrà effetti drammatici sulle loro vite.
La retorica (fintamente) progressista secondo cui la riduzione dei diritti dei lavoratori occupati determina automaticamente l’aumento dell’occupazione, sebbene smentita dai fatti, è divenuta ormai regola generale.

Questi, in sintesi, i punti del decreto attuativo della legge delega relativa all’introduzione del cosiddetto contratto a tutele crescenti.

– Innanzitutto, diversamente da quanto era stato affermato dal governo Renzi, non vi è alcun contratto a tutele crescenti. Per i neoassunti, indipendentemente dall’anzianità di servizio che raggiungeranno nei prossimi anni, non esisterà più il diritto a essere reintegrati in caso di licenziamento illegittimo.

– Per questi lavoratori è previsto esclusivamente un risarcimento economico che viene stabilito nella misura di 2 mensilità per ogni anno di lavoro, fino ad un massimo di 24 mensilità.

– Inoltre, le aziende che nel 2015 assumeranno lavoratori con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato godranno del beneficio “incondizionato”, previsto dalla legge di stabilità, dello sgravio contributivo per i prossimi 3 anni. Cosa succede però se l’azienda licenzia il lavoratore assunto con il nuovo contratto a tempo indeterminato al 37 mese? È presto detto: l’azienda ha risparmiato, a spese della fiscalità generale, circa 20mila euro di contributi e il lavoratore si ritrova per strada.

– I lavoratori assunti con il cosiddetto contratto a tutele crescenti hanno la possibilità di ottenere la reintegrazione nei soli casi di licenziamento discriminatorio. Ipotesi queste residuali rispetto alla casistica generale. E, cosa di non poco conto, nel caso di licenziamento discriminatorio l’onere di allegare gli indici della discriminazione grava sul lavoratore, diversamente da quanto accade nelle altre ipotesi di licenziamento (giusta causa e giustificato motivo soggettivo e/o oggettivo), in cui l’onere della prova della giusta causa e/o giustificato motivo del licenziamento è a carico del datore di lavoro.
Ma la vera trovata della riforma riguarda i licenziamenti collettivi disciplinati dalla Legge 223/91. Il Jobs Act esclude anche in queste ipotesi la possibilità del reintegro del lavoratore, prevedendo soltanto un’indennità da 4 a 24 mensilità.

Il legislatore, di fronte a questa opera di macelleria sociale, è riuscito comunque a mantenere una vena ironica, prevedendo la possibilità del reintegro nella sola ipotesi di licenziamento collettivo orale. Un’ipotesi al limite della fantascienza, che si verificherebbe soltanto nel caso in cui un datore di lavoro, magari furioso a causa di un litigio coniugale, entrasse in azienda e si mettesse ad urlare: “Siete tutti licenziati!”.

Riassumendo: nel Jobs Act di crescente c’è solo la nostra incazzatura.

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