Era il 17 settembre 2009 quando si insediò al Pirellone il “Comitato per la legalità e la trasparenza delle procedure regionali”, istituito con apposito decreto dal governatore lombardo Roberto Formigoni.

Tra gl’insigni controllori spiccavano le preclare figure del prefetto ed ex generale Mario Mori, già comandante del Ros dei Carabinieri e direttore del Sisde, e dell’ex colonnello Giuseppe De Donno, già braccio destro di Mori al Ros, poi suo capo di gabinetto al servizio segreto civile, ora amministratore delegato di una società di sicurezza privata, la G-Risk. “Si tratta di personalità di rilievo nazionale – dichiarò tutto tronfio Formigoni in conferenza stampa -, servitori dello Stato che hanno accettato di affiancare la Regione nel grande processo di modernizzazione, anche in vista di Expo2015. Sono due i doveri che sento di avere: procedere a tappe forzate nell’opera di modernizzazione, realizzando tutte le infrastrutture necessarie, e al contempo fare in modo che questa opera avvenga in assoluta trasparenza e che siano premiati gli imprenditori e il lavoro onesti. Non voglio che la criminalità s’insinui”. Non sia mai. Ora, a cinque anni di distanza, si può dire con orgoglio che i risultati sono arrivati: 8 arresti per associazione per delinquere, truffa, turbativa d’asta e falso, fra cui quelli del direttore generale di Infrastrutture Lombarde (la holding regionale che gestisce grandi opere per 11 miliardi) e del responsabile delle gare e appalti; e 29 indagati, fra cui – guarda guarda – De Donno. Cioè: colui che già il primo giorno di lavoro sottolineava “la positiva collaborazione tra magistratura e Pubblica Amministrazione” e veniva esaltato dal Celeste Governatore come perno irrinunciabile del “rafforzamento dei presìdi di legalità all’interno del sistema”, è lui stesso inquisito per alcuni appalti e incarichi vinti con gare truccate, tra cui uno da 140 mila euro per la “rilevazione del rischio ambientale” sull’autostrada Milano-Brescia. Missione compiuta.

Conosciamo l’obiezione: ma chi poteva mai immaginare che un ex colonnello del Ros ed ex dirigente del Sismi, anziché combattere l’illegalità, l’avrebbe praticata (come è sospettato di aver fatto dai pm e dal gip)? La risposta è nel curriculum di De Donno, l’ufficiale dei carabinieri che a fine maggio del ‘92, una settimana dopo la strage di Capaci, mentre i rappresentanti dello Stato lacrimavano ai funerali di Falcone a favore di telecamera e dichiaravano guerra senza quartiere a Cosa Nostra, avvicinava Massimo Ciancimino (conosciuto anni prima per un’indagine) perché mettesse una parola buona con il padre Vito, mafioso corleonese e politico democristiano, già sindaco e assessore ai Lavori Pubblici di Palermo, arrestato e fatto condannare da Falcone e Borsellino, in quel momento agli arresti domiciliari per scontare la pena definitiva. La proposta indecente del Ros a don Vito era quella di avviare, tramite lui, una “trattativa” (parole di De Donno e Mori, costretti ad ammettere l’immondo negoziato dopo che lo rivelò Giovanni Brusca nel 1996) con i vertici di Cosa Nostra che avevano appena assassinato Falcone, la moglie e gli uomini della scorta. Trattativa che iniziò a metà giugno con il primo incontro De Donno-Ciancimino senior, e proseguì con molti altri, anche con Mori, anche dopo la strage di via D’Amelio che eliminò Borsellino, ostile alla trattativa e impegnato a bloccarla con le sue indagini. Ragion per cui sia Mori sia De Donno sono imputati a Palermo per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato.

Ora qualcuno domanderà: ma era proprio il caso di nominare prima al vertice del Sisde e poi nel Comitato Legalità e Trasparenza per gli appalti lombardi due ex ufficiali che, pagati per combattere i mafiosi, nel ‘92 non trovarono di meglio che trattare con i mafiosi? Non è come mettere le volpi a guardia del pollaio? Ma sono domande ingenue: chi trattò con la mafia ha accumulato tali e tanti meriti da garantirsi l’elisir di eterna carriera. Non nella mafia, si capisce: nello Stato.

il Fatto Quotidiano, 22 Marzo 2014

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