“I talebani possono essere sconfitti in un solo mese, se gli americani lo volessero”, è perentorio Wahab, 25 anni, giornalista della tv Ars, il Tempo, di Herat in Afghanistan. “E’ come un gioco: se rimangono gli americani, ci saranno sempre i talebani. Così gli americani sono giustificati a rimanere e la vittima di questo gioco è l’Afghanistan. Gli Usa non se ne andranno mai dal nostro Paese”.

Wahab è uno dei quattro giornalisti afghani in Italia in questi giorni per un progetto di formazione per giovani cronisti. Con lui, tre giovani donne poco più che ventenni, due di Herat e una di Kabul. Li unisce il fatto che tutti quattro sono nati durante la guerra, come sottolineano, perché lì la guerra va avanti da trent’anni, ma mai nessuno è riuscito a conquistare l’Afghanistan. Lo stesso orgoglio che si legge sui loro visi. Non tutte portano il velo, i capelli scendono lunghi e al dito un semplice anellino.

Giorni fa l’italiana Barbara De Anna è stata vittima di un attentato nelle strade di Kabul. “Quando io esco di casa non so se ci tornerò” spiega Shahin, 23 anni, che abitata proprio nella capitale, “ma le donne accettano il rischio pur di uscire, sono loro le prime vittime assieme ai bambini”. Shahin è la più inflessibile nel condannare gli americani e i suoi alleati: “Stanno occupando il nostro paese, loro non sono onesti, non vogliono la pace. Sono arrivati promettendo di portare la democrazia, diritti umani e sicurezza, ma fino ad oggi non è così. Hanno dato un sacco di soldi al governo fantoccio, soldi che sono rimasti nelle loro tasche. Noi siamo il secondo Paese al mondo per livello di corruzione. Non posso, però, paragonare l’attuale situazione con il passato regime talebano. Io sono l’esempio, se sono qui”.

“Ma se non c’è sicurezza non si fa nulla”, ripetono e spiegano che ci sono due tipi di talebani, quelli afghani e quelli pakistani, sono quest’ultimi che compiono gli attentati suicidi. “Non è come il passato, con i talebani era terribile, ma la situazione sta peggiorando velocemente. E che cosa succederà dopo il 2014?”, quando è previsto il ritiro del grosso delle truppe, si chiede Shamahz, 21 anni, giornalista di una radio di Herat. Tuttavia qualcosa sta cambiando seppure lentamente nella società afghana. “La mia famiglia mi ha supportato, soprattutto mio padre, nella scelta di fare la giornalista e di venire in Italia. Loro vogliono che si migliori. Molte famiglie non avrebbero consentito di viaggiare ai figli”, rivela Shamahz, che è andata a scuola la prima volta a 10 anni, cominciando dalla quarta elementare, dopo il periodo talebani.

“Un tempo la donna non poteva uscire di casa, studiare, lavorare e gli italiani hanno fatto molto per la sicurezza della città”, ammette Sosan, 22 anni, di Herat. “Herat è come la Germania in Europa. Siamo migliori per sicurezza, economia, per ricostruzione, per rispetto della cultura e delle relazioni fra le persone”, riferisce Wahab. “Non dico che sia la città ideale e tutto funzioni, ma se debbo fare un paragone con altre città, allora dico che noi stiamo meglio.

Però alcuni villaggi attorno ad Herat sono diventati meni sicuri e la situazione sta peggiorando. E tutti noi ci facciamo la stessa domanda: che cosa succederà dopo il 2014? I media stanno calcando molto la mano, parlano di disastro. Secondo me invece ci sarà una situazione di stallo perché gli americani non se ne andranno. In Afghanistan non ci sarà mai pace. Poi Iran e Pakistan supportano i talebani. In Pakistan ci sono 13 mila Madrasse, le scuole coraniche, e se uscisse anche un solo estremista da ogni scuola, ogni anno avremmo 13 mila nuovi talebani”. Meno pessimista è Shanahz: “Per il futuro dell’Afghanistan io sono speranzosa, credo nei giovani e fra loro non ci sono talebani. Noi siamo in grado di costruire il nostro futuro”. Ora Obama rilancia la trattativa con i Talebani per la pacificazione del Paese. Sarà possibile, sarà la risoluzione?

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