Un prete gay potrà ambire a diventare vescovo della Chiesa anglicana, anche se in unione civile con un altro uomo. A patto che pratichi – e dimostri di praticare – una vita in castità. La House of Bishops, organizzazione interna del sinodo dei vescovi anglicani e responsabile per l’insegnamento della dottrina, ha deciso: ora anche gli omosessuali potranno “fare carriera” all’interno della propria comunità ecclesiastica. A patto, chiaramente che siano di sesso maschile. Dopo il bando all’ordinazione delle donne vescovo dello scorso novembre, bando per il quale la stessa Chiesa d’Inghilterra si spaccò a metà, a poche ore dalla notizia a Londra sono subito arrivate le prime contestazioni. “Perché non consentire anche a una donna lesbica di diventare vescovo?”. Così ha chiesto Ruth Hunt, una delle responsabili di Stonewall, la principale associazione LGBT del Regno Unito. La spiegazione è semplice: nessuna donna, a meno di una nuova decisione, può salire sulla cattedra. Quindi, di conseguenza, neanche le donne lesbiche possono farlo. “Questa è una discriminazione, c’è omosessuale e omosessuale”, ha detto Stonewall. Ma la vicenda non pare finita qui e la Chiesa Anglicana, molto più “tormentata” da discussioni interne della Chiesa cattolica, e in questo anche molto più “democratica”, continuerà a interrogarsi, nei prossimi mesi, sulla questione.

Rimane il dubbio di come farà la gerarchia ecclesiastica a certificare la castità di un aspirante al ruolo di vescovo che abbia contratto un’unione civile con un altro uomo. La House of Bishops è stata chiara: “Le unioni civili vanno oltre la pratica sessuale e non la implicano affatto”. Due obiettivi raggiunti con una sola affermazione. Il primo, chiaramente, è quello di giustificare la nuova decisione. Il secondo, più nascosto, è quello di togliere dignità, in un qualche modo, alle civil partnership introdotte non molti anni fa nel Regno Unito, contro le quali la Chiesa si è sempre espressa, pur non arrivando ad attaccare primi ministri e governanti. Qualche anno fa, sempre in una delle riunioni-fiume per le quali la comunità di fedeli comandata dalla regina Elisabetta – e solo in secondo luogo dall’arcivescovo di Canterbury – è famosa, ci si interrogò sull’opportunità o meno, da parte dei preti e dei vescovi, di dare una sorta di benedizione alle unioni civili. Si decise che non era il caso, qualcuno continua a farlo quasi di nascosto, ma la pratica non è assolutamente ben vista dalle gerarchie.

Ora, appunto, questa nuova possibilità per gay o presunti tali, in quanto non dichiarati. Ma va detto che è da dieci anni che l’argomento attraversa a fasi alterne lo spirito anglicano. Esattamente dieci anni fa, nel 2003, fece notizia in tutto il mondo la “cacciata” dal vescovado di Reading di Jeffrey John, omosessuale, che fu costretto a dimettersi – ma secondo molti “fu dimesso” – dai fedeli tradizionalisti e arrabbiati. John, in tutti questi anni, si è fatto portavoce delle istanze dei gay nella Chiesa anglicana. Nel 2006 si è pure sposato – o, meglio, ha contratto un’unione civile – con un altro prete omosessuale. Il vescovo “mancato” ora esulta e dice di essere stato sempre casto, in questi ultimi anni, forse per darsi qualche possibilità in più. Una castità obbligata che ora in molti, nel Regno Unito, iniziano a considerare “crudele”. Ai vescovi eterosessuali non è di certo richiesta formalmente, ma il sesso fra uomini – così come quello fra donne – è ancora un tabù per la Chiesa d’Inghilterra. “Questa è una discriminazione”, dice ora Stonewall, “ci batteremo contro questa ingiustizia”.

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