Uno spettro non si aggira per l’Aquila. È l’ombra-ministro per i Beni culturali, il professor Lorenzo Ornaghi.

Chissà se questo prudente assenteismo si deve al fatto che uno degli uomini più discussi della ‘ricostruzione’, il vicecommissario Antonio Cicchetti (il gentiluomo di Sua Santità che – come ha raccontato da ultimo Gian Antonio Stella – si è costruito, tra le macerie, un super-resort di lusso) è stato a lungo il direttore amministrativo di quell’Università Cattolica di cui Ornaghi è ancora il rettore, anche se temporaneamente in sonno.

Fosse andato all’Aquila, il ministro avrebbe capito in una frazione di secondo che tutte le ciance sui Leonardi perduti, sulle costituenti della cultura-che-fattura, sul ‘brand Italia’ e sulle sponsorizzazioni del Colosseo sono solo diversivi indecorosi, e che l’unico atto simbolico che in questo momento avrebbe un senso sarebbe trasferire la sede del Ministero all’Aquila, e mettersi a combattere in prima linea per la città martire del patrimonio storico e artistico della nazione italiana.

La situazione dell’Aquila supera, infatti, anche la più catastrofica immaginazione. Il centro storico è una città spettrale, dove nessun cantiere è in funzione, nessuna pietra è stata ricollocata (e anzi molte sono state rubate), e dove le meravigliose e immense chiese monumentali (a cominciare dal Duomo) sono spesso ancora a cielo aperto, o sono protette da ridicoli teli, e dunque in preda alla pioggia e alla neve.

Piero Calamandrei ha scritto che «una parte della nostra Costituzione è una polemica contro il presente»: ecco, camminare per l’Aquila permette di capire che l’articolo più polemico è, oggi, l’articolo 9. All’Aquila, infatti, la Repubblica ha sistematicamente tradito se stessa, rinunciando radicalmente a «tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione italiana».

Ma com’è possibile che quasi nessuno denunci più che a pochi chilometri da Roma si entra in un mondo parallelo, dove la Costituzione, la legge e la civiltà semplicemente non esistono? Il vicecommissario con delega ai Beni culturali, Luciano Marchetti, risponde che i conflitti di competenze, la litigiosità degli aquilani (sic) e la mancanza di fondi bloccano la ricostruzione. Ma lo dice con tono svagato, in un ineffabile misto di rassegnazione e cinismo burocratico: e si capisce subito che, di questo passo, tra trent’anni il centro dell’Aquila sarà ancora in queste condizioni. Ha dunque ragione da vendere Italia Nostra, che chiede le dimissioni del commissario (che ci sta a fare, se da tre anni non riesce a far nulla?), il ritorno alle competenze ordinarie delle soprintendenze (a cui Ornaghi dovrebbe fare massicce trasfusioni di personale e mezzi, se solo tutti i suoi predecessori non avessero ridotto il Mibac al lumicino), e l’avvio immediato dei lavori di ricostruzione. Mancano i soldi? Ornaghi dovrebbe battere allora il pugno sul tavolo del Consiglio dei Ministri: uno dei venti capoluoghi di regione italiani è in fin di vita, e non c’è più molto tempo se vogliamo salvarlo.

Ornaghi non è l’unico che dovrebbe andare all’Aquila. Dovrebbero farlo innanzitutto gli storici dell’arte delle università e delle soprintendenze italiane. Perché magari si renderebbero conto che continuare a gettare denaro ed energia nella spensierata industria delle mostre e dei Grandi Eventi è ora doppiamente criminale: proprio come organizzare una festa da ballo mentre il cadavere di un fratello giace nella stanza accanto.

Ma è a tutti gli italiani che farebbe bene vedere l’Aquila. È terribilmente illuminante visitare nelle stesse ore un’intera città monumentale distrutta e abbandonata, e le ‘new town’ imposte da Berlusconi e Bertolaso, cioè gli insediamenti, sorti intorno alla città, che accolgono quindicimila dei quasi trentamila aquilani che vivevano in quel centro. Sono non-luoghi di cemento che sembrano immaginati da Orwell: anonimi, senza servizi, senza negozi, senza piazze. Con i mobili uguali in ogni appartamento, in comodato come tutto il resto. E con giganteschi televisori-alienatori che fanno da piazze e monumenti virtuali per un popolo che si vuole senza memoria, senza identità e senza futuro: e, dunque, senza la rabbia per ribellarsi.

Ma l’Aquila non è solo la metafora dell’Italia, rischia di rappresentarne anche il futuro: quello di un Paese che affianca all’inarrestabile stupro cementizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale, condannando così all’abbrutimento morale e civile le prossime generazioni.

Nell’Epopea aquilana del popolo delle carriole (Angelus Novus Edizioni 2011), Antonio Gasbarrini racconta che la notte del 6 aprile 2009 (più o meno all’ora in cui qualcuno, a Roma, sghignazzava pensando alla pioggia di cemento e denaro), sua figlia arrivò sconvolta, dal centro della città, e gli disse solo: «L’Aquila non c’è più». A tre anni esatti, è ancora così.

L’Aquila non c’è più: ma se possiamo continuare a dormire sapendo tutto questo, allora è l’Italia a non esserci più.

Saturno, 16 marzo 2012

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