La casa acquistata da Claudio Scajola a Roma con vista sul Colosseo

Il ministro fa pause inutilmente lunghe. Spezza le parole meccanicamente, senza emozione. Come gli studenti che alle interrogazioni del liceo prendono tempo per cercare o intercettare suggerimenti guardando a destra e a sinistra. Solo che qui non ci sono suggeritori, solo giornalisti attenti. Il ministro se ne va silenzioso, senza rispondere a nessuno. Un tempo, in un tempo che oggi sembra lontano, anche le dimissioni in questo Paese avevano una loro solenne, tragica teatralità. Ieri, invece, il ministro Claudio Scajola, detto “Sciaboletta”, si è presentato davanti ai giornalisti con uno sguardo diagonale quasi buffo – un sopracciglio levato l’altro no – una faccia inespressivamente asimmetrica, di cera, quasi gommosa.

Racconto farsesco. La voce avrebbe voluto essere drammatica, ma non riusciva nemmeno a tremare. Le parole avrebbero voluto essere gravi, ma volavano via leggere, come bolle di sapone. Tutto il racconto avrebbe voluto essere doloroso e invece era solo farsesco. Scajola se ne va così, costretto alle dimissioni per la seconda volta nella sua vita, inseguito da mormorii e sorrisi (e da nessuna lacrima), soprattutto nel suo partito. In un altro Paese, uno che ha dato del “rompicoglioni” (testuale) a una vittima del terrorismo non avrebbe potuto più aprire bocca. Lui invece ha avuto in regalo dalla giostra del berlusconismo una rara, seconda chance: ma l’esito finale, non è cambiato. Scajola se ne va senza gloria, oggi come ieri, senza sottrarsi all’ultima sceneggiata. Quella di convocare una conferenza stampa per poter andare in tv, ed essere costretto poi a fuggire precipitosamente, per dribblare le domande dei giornalisti. Nessuno poteva prenderlo sul serio, ieri. Uno che solo una settimana prima aveva obiettato: “Si mette in mezzo la mia famiglia!”. Che tre giorni fa aveva detto sicuro: “Stavolta non mi dimetto!”. E che ieri invece pigolava: “Una cosa l’ho capita. Un ministro non può sospettare di abitare in una casa pagata in parte da altri”. Così Scajola è scappato via con la bocca cucita, si è volatilizzato nei corridoi, circondato, protetto e inseguito da un codazzo di commessi, collaboratori e ufficiostampisti zelanti. Prima di fuggire ingloriosamente, l’uomo di Imperia aveva detto con tono stentoreo, e tuttavia lamentoso: “Sto vivendo da dieci giorni una situazione di grande sofferenza. Sono al centro di una campagna mediatica senza precedenti e non sono indagato. Mi ritrovo la notte e la mattina ad inseguire rassegne stampa per capire di cosa si parla… Mi trovo esposto ogni giorno a ricostruzioni giornalistiche contraddittorie. In una situazione che non auguro a nessuno. Io mi devo difendere”. Insomma, un martire, che però tira le sue conseguenze: “Per difendermi non posso continuare a fare il ministro”. Chissà quanto deve essergli pesato questo passo, che solo fino a ieri il potere gli faceva considerare impossibile.

Copione minimale. Mentre sta parlando mi trovo proprio davanti a Scajola. Mi rendo conto, più o meno a metà dei sei minuti che si è preso per leggere la sua letterina, che non guarda in faccia a nessuno. Non crede a quello che fa, recita un copione minimale, prova a contenere il danno. Poi, a un certo punto, il volume della voce si solleva. Con aria indignata Scajola dice: “Un ministro non può sopportare di abitare in una casa pagata da altri!”. È difficile prenderlo sul serio. Eppure lui, chiuso nel suo monologo si spinge oltre: “Se dovessi acclarare di abitare in una casa che è stata in parte pagata da altri senza saperne io il motivo, il tornaconto e l’interesse, i miei legali eserciteranno le azioni necessarie per per l’annullamento del contratto di compravendita. Non potrei come ministro della Repubblica accettare di abitare in un’abitazione pagata in parte da altri!”. Fantastico. Per un attimo ti passa davanti agli occhi l’immagine degli avvocati di Scajola che inseguono le venditrici, le ormai celebri sorelle Papa, per costringerle a riprendersi l’appartamento. Non deve aver calcolato, Scajola, che in questo caso avanzerebbero di nuovo (oltre ai seicentomila che ha pagato lui) i novecentomila euro quelli portati con 80 assegni circolari dall’architetto Zampolini: la sua maledizione. Quelli che secondo lui sono stati pagati a sua insaputa. Ma la fantasia viene dissolta dalla prosa scajoliana dalla sua involontaria comicità: “Voglio riconoscere un atteggiamento istituzionale della stessa opposizione…”. Come se fosse un leader che concede attestati, e non un uomo politico che sta componendo il proprio epitaffio. Non potrei da ministro della Repubblica…”. In realtà non può, visto che ministro non lo è già più.

Autocelebrazione. Eppure, nel gran finale, Scajola si concede anche l’autocelebrazione: “Ho fatto il ministro in questi anni senza mai risparmiarmi. Ho dedicato tutte le mie energie, tutto il mio tempo, commettendo sbagli, ma sicuramente pensando di fare il bene”. Solo nel finale sembra che ci sia un brivido di emozione. Il labbro inferiore morde quello superiore, gli occhi si lucidano un po’: “Mi dimetto per permettere al governo di continuare il lavoro che anche io ho avviato”.

Ribattuta a Porta a Porta. Già nel pomeriggio il ministro capisce che il messaggio è debole, incerto. Sui blog piovono insulti di ogni segno e colore. Così Scajola decide di parlare di nuovo, a Porta a Porta. Così nei Tg le anticipazioni dello Scajola serale possono oscurare il balbettio dello Scajola mattutino. Davanti alle telecamere di Vespa è tutto un altro uomo. Grida, si arrabbia, usa parole colorite: “Sarebbe illogico e oltretutto una cosa assolutamente cretina, oltre che volgarmente tremenda”. E poi di nuovo inciampa, su quei novecentomila euro che quattro testimoni dicono di aver visto pagati da lui: “Se la cosa è avvenuta, non lo so, sarà avvenuta prima, sarà avvenuta dopo, ma certamente non con me con il notaio”. Se ne va, Scajola, con questo doppio passo: la maschera di cera e l’esternazione spiritata, gli scheletri di Genova, la macchia vergognosa di Biagi. Se ne va, si spera consapevole del fatto che non lo rimpiangerà nessuno.

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