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Tre ragioni per votare ai referendum: così si dà il colpo di grazia al Jobs Act

Ci sono ottime ragioni, economiche e non, per dare un calcio definitivo al renzismo tossico
Tre ragioni per votare ai referendum: così si dà il colpo di grazia al Jobs Act
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Tra i referendum dei giorni 8 e 9 giugno, forse quello più rilevante riguarda l’abrogazione di una parte fondamentale del Jobs Act, quella che abolisce il diritto al reintegro. Come hanno chiarito i giuristi, con l’eliminazione del testo renziano non si torna al vecchio Statuto dei Lavoratori del 1970, ma si aumenta di sicuro la tutela dei diritti dei lavoratori. In effetti, alcuni aspetti essenziali della controriforma di Renzi erano già stati demoliti dalla magistratura perché contrari alla Costituzione. Perché allora andare a votare per eliminare ciò che resta della normativa renziana? Propongo due ragioni di fondo: una di carattere sociologico e una di carattere più squisitamente economico. Poi ce n’è, a ben guardare, una terza.

Per capire la prima, partirei dall’omelia economica pronunciata da Draghi al recente vertice della Fondazione internazionale per l’innovazione COTEC. Possiamo parlare di omelia, visto che l’incontro si è tenuto nel convento di San Francesco a Coimbra. Il priore europeista ha sviluppato moltissimi temi, come al solito. Di sfuggita ha toccato anche il tema dei salari osservando che, in Europa, non solo sono stagnanti ma sono cresciuti anche meno della produttività del lavoro.

Draghi ovviamente non si è spinto più in là nel ragionamento, ma lo proseguo io. Questa autorevole osservazione ha due implicazioni. La prima è che, se i salari sono fermi, allora sono cresciute le altre due categorie distributive, i profitti e le rendite. La seconda è che all’economia è venuta a mancare la spesa degli operai-consumatori. Senza redditi da lavoro anche la domanda aggregata langue. Il super-tecnico, di fronte a questo problema, ha optato per una soluzione formalmente keynesiana: aumentare le spese militari a debito. Soluzione, per amor di storia, che troviamo nella Germania nazista che ha eliminato la disoccupazione con il riarmo. A occhio però, alzare i salari sarebbe molto meglio che aumentare la spesa militare. L’effetto economico keynesiano sarebbe il medesimo.

Perché in Italia i salari non crescono e anzi sono diminuiti, come tutte le statistiche ci dicono? Una parziale risposta si può trovare proprio nella riforma neoliberista del mercato del lavoro. È indubbio che il lavoratore assunto dopo marzo 2015 si trovi in una posizione si subalternità nei confronti del datore di lavoro che può licenziarlo, pagando una modesta indennità. Con il Jobs Act il pendolo dei rapporti di lavoro si è spostato, a causa della politica, dai diritti (del lavoratore) ai profitti (del datore di lavoro). Ripristinare qualche minima garanzia può aiutare i lavoratori e i loro sindacati a essere più ascoltati al tavolo delle trattative. Il Jobs Act aveva un preciso obiettivo: indebolire il sindacato. Ed è quello che è avvenuto. Lo stesso è accaduto per i salari.

La seconda ragione per votare l’abrogazione è il fallimento ormai provato del mito liberista che la libertà di licenziare produca miracolisticamente nuove assunzioni. Questa idea era fasulla nel passato e lo è anche nel presente. Se si guardano le statistiche del mercato del lavoro non c’è nessun effetto Jobs Act. Gli occupati in Italia oggi sono al massimo storico. Sì, ma lo sono anche in Francia, Germania e Usa, tanto per prendere alcuni esempi. L’occupazione è stata trainata da un ciclo economico favorevole, interrotto solo dal Covid, ma che poi ha ripreso il suo trend ascendente. Un ciclo favorevole ma fino ad un certo punto, perché i nuovi lavori sono creati per lo più nel settore dei servizi, con contratti precari e bassi salari.

Quindi c’è più lavoro, ma di bassa qualità. Un tema che dovrebbe essere all’attenzione di un governo sedicente populista, cioè dalla parte della gente. L’aver tolto il diritto del reintegro non ha creato nessuna fiammata occupazionale, ma solo peggiorato le condizioni di lavoro in fabbrica a vantaggio dei datori di lavoro.

La terza ragione per abolire il Jobs Act risiede proprio nella sua genealogia. La controriforma renziana è passata solo perché ha spezzato il mondo del lavoro in due parti. La riforma si applica solo ai nuovi assunti, con un’evidente discriminazione. Quindi oggi abbiamo lavoratori dipendenti di serie A e di serie B, con una chiara lesione dei principi costituzionali, e anche del buon senso. Questa odiosa discriminazione non ha nessun senso economico, e nemmeno morale. Va eliminata per un elementare senso di giustizia.

In definitiva ci sono ottime ragioni, economiche e non, per dare un calcio definitivo al renzismo tossico. Anche i suoi sostenitori che stanno nel fronte progressista dovrebbero fare una qualche ammenda e riconosce l’errore fatto. E se il referendum non passasse? Non sarebbe una tragedia. Il referendum è solo il punto di partenza, oserei dire di svolta, per il fronte progressista. Questo capitale elettorale costituisce il primo passo per affrontare la sfida vera, quella del 2027. Allora, tra i primi punti del programma, ci dovrà essere l’abrogazione del Jobs Act, se ancora vigente.

Solo liberandosi finalmente dai residui del renzismo il fronte progressista può sperare di recuperare i milioni di voti persi inseguendo la chimera conservatrice. Sempre se si vuol tornare a vincere, e non chiudersi nella confort zone di un patetico conformismo elitario.

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