Trentacinque incontri ravvicinati con gli orsi polari in una vita da esploratore. Ogni volta, racconta Pen Hadow, “c’è sempre quell’ondata di adrenalina, quella sensazione di: ‘Oh Dio, sta succedendo‘”. Ma di tutti questi momenti al cardiopalma, uno in particolare, risalente alla primavera del 1990, rimane impresso per la sua singolarità: l’arma di difesa non fu il fucile d’ordinanza, ma una vecchia, pesante pentola da porridge appartenuta a sua madre. Hadow, all’epoca 28enne e agli inizi della sua carriera, si trovava sulla costa orientale di Spitsbergen, la più grande isola delle Svalbard, un arcipelago norvegese noto per l’alta concentrazione di orsi polari in primavera, durante la stagione degli amori. “Quando un orso è affamato“, spiega Hadow al Guardian, “diventa essenzialmente un missile cerca-carne: può fiutarti da molte miglia di distanza. Se sei sporco in una tenda scura sul ghiaccio marino galleggiante, puoi assomigliare (e odorare) non diversamente da un tricheco sovradimensionato”.
L’esploratore, che si definisce “il più grande dormiglione del mondo”, quando è in spedizione ha l’amigdala – la parte del cervello che controlla la paura – “in overdrive” e dorme leggerissimo. “Per tre o quattro notti mi ero svegliato ripetutamente perché pensavo di aver sentito il temuto scricchiolio delle zampe d’orso sulla neve”. Controllare era un’impresa: la condensa del respiro e della cottura gelava all’interno della tenda, trasformandosi in una fitta coltre di cristalli di ghiaccio che piovevano addosso a ogni movimento. Toccare l’esterno del sacco a pelo a mani nude significava rischiare il congelamento superficiale. Il modo meno faticoso per una verifica era “mettersi in ginocchio dentro il sacco a pelo, aprire la cerniera della tenda e sporgere la testa per una visione a 360 gradi. Era freddo, scomodo e miserabile, e spesso non c’era nulla”.
Il giorno fatidico, Hadow stava finendo la colazione dentro la tenda. Aveva preparato il porridge nella vecchia pentola di sua madre, “una di quelle pesanti, vecchio stile, con il manico di plastica”. Il fornello da campeggio era ancora acceso per sciogliere la neve, e il suo frastuono era “sufficiente a sovrastare un jumbo jet”. Quando lo spense, ci fu un attimo di silenzio. Poi, lo scricchiolio sulla neve: “A causa dei precedenti falsi allarmi, mi sentii abbastanza noncurante mentre aprivo la cerniera dell’ingresso della tenda. Fu uno shock tremendo vedere un enorme orso polare adulto di fronte a me, a un braccio di distanza”. Il fucile carico era nella tenda, sì, ma dietro di lui. “Sapevo che se mi fossi girato per prenderlo, il mio visitatore sbavante avrebbe potuto attaccare. Quindi la mia mano istintivamente cercò la cosa più vicina pronta al combattimento che potevo vedere: la pentola incrostata di porridge“.
Tenendo indietro il lembo della tenda, Hadow colpì l’orso più forte che poté sulla testa: “Ricordo chiaramente che arricciò il muso e inclinò la testa quasi interrogativamente da un lato”, racconta. “Penso che il rumore della pentola lo abbia spaventato tanto quanto l’impatto – entrambi potevamo ancora sentire le riverberazioni”. Mentre si chiedeva se colpirlo di nuovo, l’orso “si girò e si allontanò al piccolo trotto, sparendo alla vista”.
“Sorprendere gli orsi polari è cruciale”, spiega Hadow. A volte, li ha sentiti “caricarsi” di ossigeno prima di un attacco, un respiro pesante “come un treno della metropolitana di Londra”. È in quei momenti che bisogna usare l’arma da fuoco con massima efficacia, sparando immediatamente sopra la loro testa. Ma, sottolinea con forza, la cosa più importante è “ricordare che loro hanno più diritto di essere lì di te”. Questa consapevolezza ha trasformato Hadow: da giovane avventuriero che si sentiva “io contro l’ambiente circostante”, ha capito di poter “lavorare con la natura”. Un percorso che lo ha portato a diventare il primo uomo a completare una spedizione in solitaria dalla punta del Canada al Polo Nord geografico, trainando tutte le sue provviste – un’impresa ancora oggi irripetuta.
Oggi, la sua vita è dedicata alla campagna per la protezione degli orsi polari e del loro habitat, l’Oceano Artico. “Ci sono state volte, da solo nell’Artico, in cui mi sono sentito più in sintonia con il mondo che in qualsiasi altro posto“, confessa. Ma questo legame profondo è intriso di dolore: “Mi spezza il cuore che, a causa del rapido scioglimento dei ghiacci marini, io abbia assistito a un habitat selvaggio che altri potrebbero non vedere mai”.