“Non è necessario fare il gioco di Hermès per ottenere la stessa identica cosa. Risparmiate i vostri soldi!”. È uno dei tanti messaggi che rimbalzano su TikTok, X e altre piattaforme social, lanciato non da influencer occidentali, ma direttamente da fornitori e produttori cinesi. In migliaia di brevi video, girati spesso all’interno delle fabbriche, questi nuovi “venditori” improvvisati mostrano borse, scarpe, cosmetici e capi d’abbigliamento visivamente identici a quelli dei brand del lusso più desiderati, ma privi di logo e offerti a una frazione del prezzo. Le mani invisibili che assemblano borse da decine di migliaia di euro, spesso destinate a ricevere l’ambita etichetta “Made in Italy” (nonostante una filiera produttiva ben più complessa e globale), ora hanno un volto. O meglio, migliaia di volti. Già messi a dura prova dalla crisi dei consumi e ora spinti dal timore di perdere le preziose commesse dei brand del lusso occidentali a causa della guerra commerciale tra Usa e Cina, questi attori, finora rimasti nell’ombra, hanno deciso di uscire allo scoperto, puntando sulla vendita diretta ai consumatori globali. Insomma, di fronte ai dazi imposti da Washington sotto la presidenza Trump (fino al 145% su alcuni beni), Pechino sembra aver adottato una nuova strategia: rivolgersi direttamente ai consumatori (più o meno aspirazionali) del lusso, aggirando intermediari e, almeno nelle intenzioni, le barriere tariffarie.
Il mezzo? Brevi video virali, girati spesso all’interno delle loro stesse fabbriche, in cui mostrano borse, scarpe, cosmetici e capi d’abbigliamento visivamente identici a quelli dei marchi più blasonati, ma privi di logo e offerti a prezzi stracciati. Il ritornello è sempre lo stesso: alta qualità, materiali pregiati, manifattura esperta (spesso la stessa che produce per i grandi marchi) e costi “di fabbrica“. “Più del 90% del prezzo è per il logo”, spiega un fornitore in un video diventato virale, mostrando una borsa simile a una Birkin proposta a 1.400 dollari contro i 34.000 (o 38.000, secondo altre fonti) del modello originale. “Ma se non ti interessa il logo e vuoi la stessa qualità, lo stesso materiale, puoi semplicemente comprarlo da noi”. Si trovano portafogli stile Louis Vuitton a 3 dollari, tute che ricordano Lululemon, scarpe simili alle Birkenstock, capi che evocano Under Armour o Fila, tutto a costi drasticamente ridotti.
“Questi prezzi mi stanno mandando il cervello in cortocircuito”, commenta un tiktoker americano, esprimendo lo stupore (e forse la tentazione) di molti consumatori occidentali. Non a caso, secondo i dati di SensorTower, app di e-commerce cinesi a bassissimo costo come DHgate, AliBaba e Shein hanno registrato un boom di download negli Stati Uniti negli ultimi giorni. Questa offensiva social non mira solo a vendere, ma anche a ribaltare la narrativa sul “Made in China”. Molti fornitori pubblicano video dettagliati dei loro processi produttivi, mostrando l’uso di materiali di pregio e manodopera specializzata per contrastare lo stereotipo della bassa qualità. Alcuni offrono persino spedizione gratuita internazionale e si fanno carico dei dazi doganali, pur di penetrare i mercati occidentali.
Va sottolineato, tuttavia, come questa esposizione mediatica da parte dei fornitori cinesi non sia priva di rischi considerevoli. Dietro le quinte dell’industria del lusso, infatti, vigono solitamente contratti estremamente rigidi tra i marchi committenti e le fabbriche terziste. Questi accordi, spesso corredati da penali potenzialmente stellari in caso di violazione, impediscono categoricamente ai produttori di utilizzare gli stessi design, gli stessi materiali specifici forniti dal brand, o persino le stesse tecniche produttive riservate, per realizzare e vendere prodotti in proprio, anche se privi del logo del marchio. Non solo: per mantenere il controllo sull’esclusività e prevenire la diffusione di merce non autorizzata sul mercato parallelo, è prassi comune per le grandi maison ritirare meticolosamente ogni eccedenza di materiale e persino gli scarti di lavorazione dalle fabbriche partner. La pubblicazione di questi video su TikTok, quindi, espone i produttori a conseguenze legali ed economiche potenzialmente devastanti, a meno che non si tratti di produzioni parallele realizzate con specifiche diverse, materiali simili ma non identici, o al di fuori dei vincoli contrattuali più stringenti legati a specifiche commesse.
Ma aggirare i dazi è davvero così facile? La realtà è più complessa. Anche recandosi fisicamente in Cina per fare acquisti, al rientro negli Usa si dovrebbero pagare tariffe doganali salate. E per gli acquisti online, la Casa Bianca ha prontamente chiuso la “falla” che i rivenditori cinesi avevano sfruttato: un ordine esecutivo di Trump ha rimosso l’esenzione dai dazi (“de minimis”) per i pacchi di valore inferiore agli 800 dollari provenienti dalla Cina. L’unico modo per godersi la merce cinese a basso costo, insomma, sembrerebbe essere rimanere fuori dai confini americani. Tuttavia, l’effetto più dirompente di questa campagna martellante è un altro: aprire gli occhi ai consumatori americani (e non solo) su quanto le tariffe imposte dal loro stesso governo (e i ricarichi dei brand) incidano sul prezzo finale dei prodotti.
Insomma, tutto questo dibattere sulla guerra dei dazi altro non sta che alimentando una riflessione culturale più ampia sul valore reale dei beni di lusso. Vale davvero la pena pagare migliaia di euro per un logo, quando si può avere un prodotto di qualità comparabile a un decimo del prezzo? Il confine tra qualità intrinseca e status symbol si fa sempre più sottile, soprattutto per le nuove generazioni, meno legate al concetto tradizionale di brand. E in tempi di crisi e incertezza geopolitica, il futuro del lusso, forse, passerà anche da qui: meno logo, più sostanza. Una domanda a cui l’industria della moda dovrà trovare presto una risposta.