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Suicidio assistito, la gip di Firenze “contro” la Consulta: non archivia Cappato e due attiviste

La gip aveva chiesto, rinviando gli atti alla Consulta, di rimuovere di fatto uno dei requisiti stabiliti con la sentenza DjFabo. Ma la Corte aveva esteso la nozione di "trattamento vitale"
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Una decisione non inaspettata, ma che potrebbe incidere pesantemente sul percorso delle decisioni sui casi di suicidio assistito. La giudice per le indagini preliminari di Firenze – di fatto opponendosi a una decisione della Consulta proprio sul caso specifico del 18 luglio scorso – ha respinto la richiesta di archiviazione per Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli, indagati per aver aiutato Massimiliano, un 44enne toscano malato di sclerosi multipla, a raggiungere la Svizzera dove poter morire avvalendosi della pratica del suicidio assistito. Si tratta della stessa magistrata, Agnese di Girolamo, che il 24 gennaio del 2024, inviò gli atti alla Consulta, perché decidesse sulla costituzionalità di uno dei requisiti stabiliti dagli stessi giudici con la storica decisione del 2019 sul caso DjFabo-Cappato. Insomma una contrapposizione inedita tra un giudice ordinario e i giudici della Costituzione. Il no alla chiusura del fascicolo si accompagna ovviamente all’ordine di imputazione coatta di cui si dovrà occupare la procura e cui sono stati rinviati gli atti. La gip ha disposto che il pubblico ministero, entro 10 giorni, formuli l’imputazione coatta a carico dei tre indagati per aiuto al suicidio è punito da cinque a dodici anni di carcere.

Cosa aveva deciso la gip – La gip si Firenze aveva rilevato che il paziente si trovava in una condizione di acuta sofferenza, determinata da una patologia irreversibile e aveva formato la propria decisione in modo libero e consapevole (3 dei 4 requisiti stabiliti dalla Consulta nella sentenza del 2019), ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Il gip pertanto aveva ritenuto che non sussistessero tutte le condizioni di non punibilità del suicidio assistito fissate dalla Corte e aveva chiesto alla stessa Consulta di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ritenendolo in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il diritto al rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel giudizio di legittimità costituzionale era stato ammesso l’intervento anche di due donne affette da analoghe patologie, a sostegno delle questioni prospettate.

La sentenza del 18 luglio 2018 – La Corte costituzionale – decidendo proprio sul caso di Firenze – aveva ribadito che i requisiti per l’accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019 (quella sul caso di Dj Fabo) ma aveva precisa che la nozione di “trattamenti di sostegno vitale” deve essere “interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio” di quella sentenza. La Consulta spiegava che la sentenza di 5 anni fa “si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività“. E sottolineava che “la nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo“. Quindi non solo, in senso stretto, il macchinario che tiene in vita il paziente.

L’associazione Coscioni – Secondo quanto riporta l’associazione Coscioni nella sua ordinanza la gip stabilisce che, nonostante la Corte costituzionale abbia ampliato l’interpretazione del concetto di “trattamento di sostegno vitale” proprio sul caso di Massimiliano, il 44enne non poteva essere considerato mantenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale in quanto, come si legge nell’ordinanza, occorre la “necessità dello stretto collegamento con la natura vitale dei trattamenti di sostegno, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte in un breve lasso di tempo”. La gip – sempre secondo l’associazione Coscioni – ha anche rilevato che, come stabilito nella sentenza 135 del 2024, la Corte costituzionale ha sottolineato la necessità di una valutazione da parte di una struttura pubblica del sistema sanitario nazionale. In altre parole, ai fini di stabilire se Massimiliano rientrasse nei requisiti previsti dalla legge italiana, “si nega l’equivalenza della verifica delle condizioni del paziente fatta in Svizzera rispetto a una verifica fatta in Italia”.

L’ordinanza – Per Di Girolamo “nonostante l’ampliamento delle situazioni che possono essere ricomprese nel requisito di trattamento di sostegno vitale permane e viene ribadita dalla Corte Costituzionale, ai fini di una corretta interpretazione della norma, la necessità dello stretto collegamento, ineludibile, con la natura vitale dei trattamenti di sostegno, “al punto che la loro omissio11e o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte in un breve lasso di tempo”; ritenuto che nel caso concreto per quanto emerso nel corso delle indagini. non appare esservi stata la dipendenza di Massimiliano, da un trattamento di sostegno vitale, neppure nella interpretazione estensiva data dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 135/2024, cosicché, in questo. immutato quadro normativo, non ricorrono i presupposti per ritenere l’insussistenza del reato… per accogliere la richiesta di archiviazione: ritenuto altresì che non possa essere ignorata, in punto di rispetto delle condizioni procedurali, la netta esclusione da parte della Corte Costituzionale sempre con la sentenza n. 135/2024, della operatività della clausola di equivalenza in relazione ai fatti commessi “in Italia o all’estero” successivamente alla pubblicazione della sentenza n. 242 del 2019, “ai quali si applicano invece i requisiti procedurali stabiliti dalla sentenza citata ossia la verifica da parte di una struttura pubblica del sistema sanitario nazionale e il parere del comitato etico, nel caso di specie certamente mancanti”.

Cappato – “La nostra è stata un’azione di disobbedienza civile. Con Chiara Lalli e Felicetta Maltese ci eravamo autodenunciati perché eravamo, e siamo, pronti ad assumerci le nostre responsabilità, nel pieno rispetto delle decisioni della magistratura, e nella totale inerzia del Parlamento. Continueremo – fa sapere Marco Cappato – la nostra azione fino a quando non sarà pienamente garantito il diritto alla libertà di scelta fino alla fine della vita, superando anche le discriminazioni oggi in atto tra malati in situazioni diverse”.

La procura – Il pm Carmine Pirozzoli aveva sostenuto che il contributo di Cappato “si esaurisce nell’aver fornito informazioni sul panorama normativo relativo al fine vita in Italia, nell’averne facilitato i contatti con la clinica e infine nell’averne sostenuto i costi di noleggio di un minivan per il viaggio in Svizzera. Condotte che sul piano temporale si collocano in un momento distante dall’evento morte e che non appaiono collegate all’esecuzione del suicidio”. Idem “le condotte di Lalli e Maltese” fermatesi a “uno stadio meramente preparatorio“, “hanno guidato il mezzo che ha accompagnato Massimiliano in Svizzera ma non risulta che le due indagate abbiamo partecipato alle operazioni mediche o di assistenza per predisporre il suicidio assistito”.

La nuova udienza e i casi di Milano – Sul fine vita il 26 marzo nuova udienza in Corte costituzionale, dove i giudici affrontano altri due casi: quello di Elena, una malata oncologica terminale, e quello di Romano, affetto da patologia neurodegenerativa dopo che Milano – il 24 giugno scorso – aveva inviato gli atti alla Consulta. Entrambi avevano “rifiutato la prossima sottoposizione a ‘trattamenti di sostegno vitale’ che potevano scientificamente definirsi come espressione di accanimento terapeutico” secondo la procura di Milano, che aveva chiesto l’archiviazione e in subordine l’invio degli atti a Roma. Per la gip la “equivalenza – scientificamente sostenuta – tra il rifiuto di un trattamento sanitario vitale in atto e il rifiuto di un trattamento sanitario futile o inutile in quanto espressivo di accanimento terapeutico” è uno dei nodi che la Corte dovrà sciogliere per “approfondire la nozione di trattamento sanitario vitale”.

Per questo non era stata accolta la richiesta di archiviazione dell’inchiesta a carico di Cappato, sostenendo che va stabilito “se possa applicarsi ai casi in esame la fattispecie di suicidio medicalmente assistito anche nell’ipotesi in cui il paziente non fosse tenuto in vita da un trattamento sanitario vitale in quanto (…) rifiutato” come “futile o inutile perché espressivo di accanimento terapeutico secondo la scienza medica; non dignitoso secondo percezione del malato”. Nel provvedimento, inoltre, c’era un passaggio in cui, citando Seneca, si sottolinea che con la pronuncia del 2019 (caso Dj Fabo) “il tema giuridicamente rilevante (…) non attiene al riconoscimento del diritto alla morte ma al diritto ad una vita dignitosa” con riferimento a quella “terminale”, ovvero “ad una morte dignitosa”.

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