Quando il 25 settembre 2019 con una sentenza storica la Consulta decise che non era punibile chi aiuta a morire un malato, lo fece disegnando un perimetro delimitato da quattro requisiti: ovvero che la persona soffrisse di una malattia irreversibile, che dovesse sopportare sofferenze fisiche e/o psicologiche intollerabili, che avesse deciso in autonomia e liberamente di porre termine alla sua esistenza e di essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Ed è questo requisito che è ritenuto discriminatorio dalla giudice per le indagini preliminare di Firenze, Agnese De Girolamo, che in 18 pagine spiega perché non può archiviare le posizioni di Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli come chiesto dalla procura nel caso di Massimiliano, 44enne affetto da sclerosi multipla accompagnato in Svizzera dalle due donne per poter accedere a un “suicidio indolore”; e perché chieda alla Costituzionale di intervenire sul quarto requisito così come definito dai giudici stessi.

La posizione degli indagati – Secondo la gip Cappato aiutò il 44enne a morire “mantenendo i contatti con la clinica Svizzera, fornendo … il supporto finanziario necessario per coprire i costi della procedura (non sostenibili da parte della famiglia del richiedente) e provvedendo anche a pagare le spese di noleggio del mezzo che poi ha consentito il trasporto di in Svizzera”. Lalli e Maltese, una giornalista bioeticista la prima, un’attivista la seconda, si alternarono alla guida del mezzo e portarono l’uomo fino alla clinica. “Tutti e tre gli indagati hanno dunque tenuto condotte che hanno reso possibile, come antecedenti logico-causali necessari, la realizzazione del suicidio nel modo poi effettivamente verificatosi, posto che in loro assenza – senza (quel) denaro, senza (quel) mezzo, senza (quella) guida – la morte di Massimiliano – non sarebbe storicamente avvenuta lì e allora, nei termini sopra descritti”. La magistrata riconosce comunque che l’uomo “abbia persino beneficiato dell’apporto conoscitivo fornito dall’indagato Cappato, che ha permesso a – in un contesto, come quello nazionale, di scarsa se non assente informazione istituzionale sul punto – di valutare in modo più consapevole le alternative concretamente disponibili, sia dal punto di vista materiale che giuridico”.

La questione del sostegno vitale – Dal 2019 a oggi non c’è stato nessun passo avanti nella legislazione per normare il fine vita di persone con malattie irreversibili e per cui non c’è cura. E quindi con grande lentezza le Asl concedono ai malati che si trovano nel perimento di quei quattro requisiti il diritto alla morte volontaria. I casi sono pochissimi e il via libera arriva dopo mesi e mesi di richieste e in alcuni casi denunce. Ma esistono anche altri malati – alcuni oncologici e gli affetti da patologie neurodegenerative come nel caso di Massimiliano non ancora attaccati alle macchina – che nonostante le sofferenze, nonostante l’irreversibilità e nonostante la volontà libera e autonoma di voler porre fine al dolore psichico e/o fisico non hanno la possibilità di chiedere allo Stato il rispetto del verdetto del 2019, emesso sul caso Cappato/dj Fabo. Ma cos’è davvero il sostegno vitale? L’essere tenuti in vita da macchine ed essere alimentati o idratati artificialmente? Oppure essere aiutati da terzi nella quotidianità? Per il giudice alcuni casi hanno posto problemi interpretativi, ma il sostegno vitale è solo quello sanitario a differenza di quanto sostenuto in atri procedimenti.

“I primi problemi interpretativi hanno iniziato a porsi – si legge nell’ordinanza – quando sono emerse vicende concrete in cui i pazienti, che avevano ottenuto l’assistenza al suicidio all’estero, versavano in condizioni di salute sostanzialmente analoghe a quelle prese in considerazione dalla Corte costituzionale, ma – per le peculiarità della patologia da cui erano affetti o per lo stadio a cui questa si trovava – non erano dipendenti da un respiratore artificiale o da altri macchinari. I commentatori prima e la giurisprudenza di merito poi hanno presto ritenuto che una corretta interpretazione del requisito in esame non dovesse essere limitata alla mera dipendenza da una macchina, potendo abbracciare un ampio novero di ipotesi: quelle in cui il trattamento di sostegno vitale sia realizzato, oltre che con l’ausilio di macchinari medici, con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico; caratteristica propria degli interventi in questione sarebbe la circostanza che si tratterebbe pur sempre di trattamenti interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato, anche in maniera non rapida”.

La sentenza di Massa e i trattamenti sanitari – I giudici di Massa, nel settembre del 2020, avevano motivato l’assoluzione di Mina Welby e Marco Cappato per il caso di Davide Trentini proprio con la motivazione anche “l’assistenza e i farmaci sono sostegno vitale”. Ma De Girolamo non concorda sul punto e richiamandosi proprio alla Consulta ritiene che i “trattamenti di sostegno vitale di cui si discute ai fini della non punibilità dell’aiuto al suicidio debbano essere intesi propriamente come trattamenti sanitari“. E nel documento si spiega: “Quali caratteristiche connotino la natura sanitaria del trattamento non è indicato dalla legge, ma può ricavarsi in qualche misura, oltre che dal ricorso a una piana interpretazione letterale, dalla riflessione maturata, in dottrina e prima ancora nella letteratura medica, circa la possibilità di ricondurre ai trattamenti sanitari nutrizione e idratazione artificiali, valorizzando singolarmente e più spesso congiuntamente – indici quali la necessità di previa valutazione medica, la prescrizione medica, il ricorso a dispositivi medici, il monitoraggio da parte del medico…”. Quindi accompagnare un malato in bagno o nutrirlo non può essere considerato un trattamento: “Evidentemente, non ogni ”aiuto a vivere” (sia pur congiuntamente agli altri requisiti) può, allo stato, giustificare la non punibilità delle condotte di “aiuto a morire”: l’aiuto deve sempre estrinsecarsi nelle forme di un trattamento, e più precisamente di un trattamento sanitario, del tutto assente nel caso di specie”.

Perché il requisito del sostegno vitale è incostituzionale – Ma un malato che presenta i tre requisiti ma non dal quarto sono discriminati: perché gli viene impedito di autodeterminarsi. Per la giudice il requisito così com’è ovvero “costituito dalla necessità che la persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale presenti diversi profili di possibile contrasto con i parametri costituzionali. La premessa è che tale requisito segna, se letto in negativo, il confine tra l’area di liceità e l’area tuttora coperta dal divieto di aiuto al suicidio, e pertanto costituisce un limite per la persona desidera morire avvalendosi dell’aiuto altrui, in quanto disincentiva, tramite minaccia della sanzione penale, i terzi che intendessero apportare tale aiuto”.

Essere malati irreversibili ed essere tenuti in vita da macchine oppure no dipende di fatto dal caso, dalla fortuna o sfortuna forse. La presenza del quarto requisito “appare il frutto di circostanze del tutto accidentali, legate alla multiforme variabilità dei casi concreti, in relazione alle condizioni cliniche generali della persona interessata (ad es., più o meno dotata di resistenza organica), al modo di manifestarsi della malattia da cui la persona è affetta (ad es., connotata da uno stadio più o meno avanzato, oppure da una progressione più o meno rapida), alla natura delle terapie disponibili in un determinato luogo e in un determinato momento, nonché dalle scelte che lo stesso paziente abbia fatto (ad es., rifiutando fin dall’inizio qualsiasi trattamento). La differenza nella disciplina attuale di tali situazioni è irragionevole perché l’unico elemento che in ipotesi le distingue – la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale – non porta con sé, se presente, alcun elemento di segno positivo tale da giustificare una considerazione più benevola da parte dell’ordinamento, né esprime, se assente, maggiore meritevolezza o bisogno di pena dei terzi agevolatori. In altri termini, il requisito-criterio in esame appare incapace di operare una selezione razionale tra situazioni simili“.

Ma non solo il sostegno vitale “è irrilevante per la sussistenza e per l’accertamento degli altri requisiti, da esso indipendenti sia a livello concettuale che pratico” e introduce di fatto una discriminazione tra malati che per la gip è “una illegittima disparità di trattamento tra situazioni analoghe. A tal proposito, è importante segnalare che l’esigenza di evitare, anche in questa materia, una irragionevole discriminazione di trattamento tra categorie di pazienti in condizioni sostanzialmente simili”. “Ma vi è di più. Pretendere che, per poter ottenere un lecito aiuto a morire da parte di terzi, il malato sofferente sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale non solo limita la libertà del paziente, restringendone le possibilità di manifestazione, ma ne condiziona l’esercizio in modo perverso, trasformando l’autodeterminazione nel suo contrario”.

Il tema del diritto alla dignità – Ad oggi quindi si dovrebbe “imporre al paziente irreversibile e sofferente di attendere, anche per lungo tempo, quello che ormai è inevitabile, ossia che la malattia si aggravi fino allo stadio in cui si renda necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale (momento da cui peraltro andrà
computato un ulteriore lasso di tempo per la procedura che porta alla morte assistita)”. La gip riflette che “è infatti proprio chi non dipende da un trattamento di sostegno
vitale, e dunque non potrebbe morire semplicemente interrompendo tale trattamento, che necessita dell’aiuto esterno per congedarsi secondo la propria idea di dignità“. P

er un malato, non più autonomo e dipendente totalmente da terzi “la prolungata attesa della morte” può aggiungere dolore a dolore, sono solo quello derivante dalla malattia “ma anche alla contemplazione ormai disperata della propria agonia e della propria sorte, nonché al fatto che a tale inevitabile declino possano assistere (o addirittura siano di fatto costrette ad assistere) persone care… “. Ed è anche per questo che si chiede alla Consulta di pronunciarsi nuovamente sul reato per centrare “la necessità di sfaldare progressivamente il divieto di aiuto al suicidio previsto dal codice penale … per eliminare i residui di illegittimità costituiti non tanto dai requisiti della non punibilità, bensì … dai perduranti spazi di rilevanza penale della condotta, che solo la prassi consente progressivamente di individuare e censurare alla luce dei parametri costituzionali, così come oggi interpretati”.

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