Formula 1, il nuovo El Dorado è il Rwanda: la prospettiva di un Gp africano da milioni di dollari in uno dei Paesi più poveri al mondo

Lewis Hamilton ha confessato di aver ricevuto una promessa da Stefano Domenicali sulla possibilità di correre un Gran Premio nel continente africano prima del suo ritiro dalle corse, o almeno dalla Formula 1. In Africa non si corre più dal 1993, da quando il GP sudafricano di Kyalami fu tolto dal calendario causa bancarotta della società che gestiva il circuito, in seguito rilevato dalla Federazione Automobilistica del Sudafrica. Un’assenza che comincia a pesare, guardando nell’ottica della politica espansiva di Liberty Media all’insegna di calendari sempre meno eurocentrici, anche a scapito di tracciati storici. La saturazione dei posti disponibili creata dalla volontà di numerosi paesi, anche privi di tradizione automobilistica, di entrare nel Circus più danaroso al mondo, avvenuta a dispetto dell’incremento del numero di gare del Mondiale, ha prodotto i primi casi di turnover. Ad esempio Spa, che ha rinnovato fino al 2031 ma che salterà due stagioni (2028, 2030) su sei. Un ingorgo di cui non può però fare le spese l’Africa, anche per ragioni politiche. Ma proprio il continente “promesso” a Hamilton rappresenta un piccolo ma significativo riassunto della contrapposizione tra tradizione e business che caratterizza le scelte di Liberty Media.
Kyalami rappresenta la tradizione: 21 gare spalmate in venticinque anni (prima del 1967 in Sudafrica si correva al Prince George Circuit di East London, dopo ci fu la temporanea estromissione del circuito a causa dell’apartheid), due diversi layout, tanti storie esaltanti (i successi di Lauda e Villeneuve su Ferrari, quelli di Piquet – campione del mondo nell’occasione – e di Patrese su Brabham, i primi punti di Senna con la Toleman) ma anche tragiche, come lo spaventoso incidente nel ’77 che costò la vita al pilota gallese Tom Pryce e a un commissario di pista, lo studente olandese Frederik Jansen van Vuuren.
Kyalami non è stato mai abbandonato del tutto dalla F1, almeno fino a quando era possibile effettuare test illimitati, visto che diverse scuderie sceglievano il Sudafrica come meta nei primi mesi dell’anno per iniziare la stagione. A livello economico, però, il crollo del rand sudafricano ha reso eccessivamente costoso un nuovo tentativo di ingresso nel calendario. Basti pensare che all’inizio degli anni Novanta un dollaro equivaleva a circa 3,19 rand, mentre oggi siamo attorno ai 18,50.
Alla mancanza di fondi e di un organizzatore si sono aggiunte anche le restrizioni regolamentari. Pur essendo stato ciclicamente rinnovato attraverso una serie di restyling e investimenti, attualmente Kyalami possiede una licenza FIA di livello 2, un gradino sotto il necessario per poter ospitare una gara di F1. Servono ulteriori adeguamenti del circuito agli standard di sicurezza richiesti dalla F1, un compito che negli ultimi mesi è stato affidato a Apex Circuit Design. Il governo sudafricano ha inoltre indetto una gara d’appalto per l’organizzazione del Gran Premio, insistendo molto – in perfetto stile showbusiness oriented di Liberty Media – sul concetto di “destinazione iconica”, soddisfatta in questo caso dalla vicinanza con Johannesburg. Entrano quindi in gioco anche elementi quali la rete dei trasporti e la sostenibilità, tutte voci che vengono valutate nella scelta dei circuiti e che verosimilmente comporteranno un ulteriore aumento delle spese. La forza di Kyalami risiede nel nome, ma la strada sembra essere ancora lunga.
I principali avversari di Kyalami sono Città del Capo e il Rwanda. Il primo piace a Liberty Media perché cittadino, lì ha corso due anni fa la Formula E ma le strade non sono ampie a sufficienza per contenere due monoposto di Formula 1 affiancate, che rispetto alla Formula E presentano 15 cm di larghezza in più (ridotti a 10 nel 2026, ma sempre troppi per questo tracciato). Servirebbero quindi pesanti interventi di ristrutturazione. Un problema che invece non si pone il Rwanda, uno degli stati più poveri al mondo (pil pro capite inferiore ai mille dollari l’anno), eppure uno dei potenziali nuovi El Dorado del mondo dello sport. In passato ilfattoquotidano.it aveva già analizzato come questo piccolo stato africano (11 milioni di abitanti) stava diventando la nuova frontiera dello sportwashing. Al pacchetto si è aggiunta anche la Formula 1, con la costruzione di un circuito nuovo di zecca che sorgerà nei pressi del nuovo aeroporto di Bugesera, sito a 25 chilometri a sud-est della capitale Kigali.
Sotto il profilo dei legami tra sport e potere, il Rwanda è un nuovo Qatar. Ricchissimo di materiali preziosi quali tantalio (molto ricercato nel settore dei microcircuiti), tungsteno, oro, stagno e litio, ma decisamente carente a livello di rispetto dei diritti umani e civili, di libertà di stampa e tutela delle minoranze, come i paesi della penisola araba si sta comprando l’ingresso nel Circus motoristico a suon di milioni di dollari, per la precisione 40, ovvero la quota annua di iscrizione prevista per il circuito (con contratto quinquennale), una delle più elevate insieme a quelle dei paesi arabi e dell’Azerbaigian. Il Rwanda però è un nuovo Qatar che usa i soldi di quello vecchio: l’hub internazionale di Bugesera è stato finanziato da Doha con un due tranche rispettivamente da 800 e 500 milioni di dollari. Stesso discorso per il circuito adiacente, che costerà tra i 50 e gli 80 milioni. Nel mentre il Rwanda ha già festeggiato il suo ingresso nel salotto buono del motorsport ospitando lo scorso 13 dicembre l’annuale cerimonia di premiazione della FIA, che nell’occasione ha festeggiato anche il suo 120esimo anniversario. “Un’occasione di crescita e sviluppo”, ha detto Domenicali. Per chi non è dato sapersi. O forse è fin troppo chiaro.