Qatar e i paesi della penisola araba hanno fatto scuola e l’allievo più promettente sembra essere il Rwanda. Mentre i riflettori attorno a Doha si sono spenti, la nuova frontiera dello sportwashing si sta spostando a Kigali, città epicentro di una serie di eventi sportivi di caratura internazionale che culmineranno nel 2025 con l’organizzazione dei Campionati mondiali di ciclismo per la prima volta in assoluto nel continente africano. Tutto è cominciato nel 2021 con l’organizzazione della prima edizione del BAL, il Basketball Africa League, ovvero il primo campionato internazionale africano di basket per club, organizzato insieme alla NBA. Nel febbraio 2023 c’è stato il Tour du Rwanda, la più grande corsa ciclistica d’Africa, mentre il mese successivo Kigali è stata sede dell’Assemblea Generale della FIFA, dove il presidente Gianni Infantino è stato rieletto per un terzo mandato. A fine anno il paese ospiterà l’AfroBasket, vale a dire i Campionati Africani femminili di Pallacanestro FIBA, mentre nel 2024 toccherà al Veteran Club World Championship, torneo che riunisce vecchie icone del calcio mondiale.

Un piatto lussuoso per questo stato grande poco più della Sicilia – ma con oltre il triplo della densità di popolazione – così come ricchi sono stati gli investimenti del presidente Paul Kagame per sviluppare quello che viene definito nation branding. Nel 2018 il Rwanda Development Board ha pagato quasi 40 milioni di euro per stampare “Visit Rwanda” sulle magliette dell’Arsenal, squadra di cui Kagame è tifoso. Un anno dopo è stato concluso un contratto di sponsorizzazione da 10 milioni l’anno con il Paris Saint-Germain per apporre il logo del citato Development Board sulle casacche del club parigino-qatariota. Alcuni giocatori del PSG hanno fatto da testimonial per il Rwanda, invitando a visitare le bellezze naturali del paese, quali a esempio il Parco Nazionale dell’Akagera, il lago Kivu o la foresta di Nyungwe. Il PSG ha inoltre aperto una scuola calcio a Huye, città nel sud del Rwanda un tempo nota come Butare. Ma non c’è solo il calcio: a dicembre l’ambasciatore ruandese ha partecipato al lancio della campagna promozionale #VisitRwanda nel COREtec Dôme, sede del Filou Ostenda, la più titolata società di pallacanestro belga, dove verranno proiettati filmati promozionali per stimolare anche il turismo sportivo in Rwanda, ricco di piste ciclabili spettacolari (e in Belgio, come in Italia, il ciclismo è tra gli sport più popolari).

Il Qatar è stato al centro di critiche e dibattiti per la sua disinvolta politica che, attraverso ingenti investimenti nello sport, era finalizzata a creare un’immagine positiva per un regime discutibile. Il Rwanda non è molto distante da questo modello. Kagame è l’uomo forte di un paese distrutto nel 1994 da un orribile genocidio. Dal 1994 al 2000 è stato vicepresidente del Rwanda, per poi assumere la carica più alta del paese, venendo rieletto per la terza volta nel 2017 con il 99% delle preferenze. Un dato che illustra bene le zone d’ombra attorno a un personaggio da un lato considerato un eroe per aver fermato il bagno di sangue e aver condotto il paese a un tasso di crescita economica tra i più alti e stabili di tutto il continente, dall’altro certamente non annoverabile tra i campioni della democrazia, tra persecuzioni degli oppositori, processi farsa (come quello che ha condannato per “terrorismo” a 25 anni di carcere Paul Rusesabagina, l’Oscar Schindler rwandese che ha ispirato il film Hotel Rwanda e che è stato liberato – senza cancellazione della pena – pochi giorni fa grazie a pressioni internazionali), libertà di stampa inesistente e mancato rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Senza dimenticare il sostegno al gruppo ribelle M23 che opera nell’est della Repubblica Democratica del Congo, con il Rwanda oggetto di una richiesta ufficiale da parte dell’Unione Europea di cessare rifornimenti e qualsiasi attività di supporto ai guerriglieri. A favore di Kagame però giocano le ottime relazioni instaurate con tre dei principali attori politici dell’Occidente: Stati Uniti, Inghilterra e Francia.

Secondo il primo ministro ruandese Édouard Ngirente, il turismo sportivo ha portato in Rwanda 6 milioni di dollari nel 2021. Dopo l’accordo con l’Arsenal, le entrate del turismo in Rwanda sono aumentate del 17% e i turisti dall’Europa sono aumentati del 22%. Ma si tratta di investimenti destinati a generare benefici solo per le elite e non per il paese, come denunciato da Luc Rugamba, leader del movimento cittadino Action Citoyenne pour la Paix. “Mettere il nome del Rwanda sulla maglia dell’Arsenal o far venire in visita i giocatori del Paris Saint Germain non significa sviluppare lo sport del paese. Si tratta di investimenti in immagine, non nella realtà quotidiana rwandese. Perché spendere i contributi internazionali per sostenere squadre milionarie piuttosto che per costruire infrastrutture o investire nell’istruzione?”. Questo maquillage alla propria immagine sembra comunque destinato a sciogliersi in tempi rapidi. Secondo Simon Anholt, creatore dell’Anholt-Ipsos Nation Brands Index, uno strumento analitico che misura e classifica la reputazione di 60 stati attraverso sei dimensioni di competenza nazionale (esportazioni, governance, cultura, persone, turismo, immigrazione/investimenti), “l’impatto positivo dello sportwashing è destinato a durare tra i sei e i dodici mesi. Poi la gente dimentica, se non vengono prese misure visibili contro questioni quali il cambiamento climatico, la disuguaglianza, la povertà e le violazioni dei diritti umani. Limitarsi a pompare denaro in pubblicità e pubbliche relazioni, e proclamare che il proprio paese è felice, ricco, bello e prospero, non ha senso. Non ci crederà nessuno”.

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