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Se a essere malata è l’organizzazione aziendale: lo stress non dipende solo dai lavoratori

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di Laura Quarà*

La consulenza peritale in materia di conflittualità organizzativa, mobbing, straining, stress e molestie, ha portato coloro che si occupano – come me – di questa disciplina da alcuni anni, a rivedere ed aggiornare le loro competenze; questo perché gli scenari aziendali all’interno dei quali si sviluppano le vicende lavorative hanno acquisito, nel tempo, maggiore rilevanza rispetto alla visione forse un po’ riduttiva e sicuramente complessa della relazione vittima/aggressore.

Va premesso che la metodologia d’indagine utilizzata dalla scrivente nell’analisi di qualsiasi evento che abbia una rilevanza psicologica si configura concettualmente in un più ampio e sistematico approccio riconducibile alla teoria psicologica sistemico-relazionale; secondo tale teoria gli eventi devono essere valutati non solo come il prodotto di un singolo individuo ma anche come espressione di una situazione che, se diventa problematica o conflittuale, esprimono una disfunzionalità relazionale all’interno del sistema nel quale si sviluppa – sia esso lavorativo, familiare, sociale – con conseguenze sulla integrità psico-fisica del soggetto coinvolto; l’analisi accurata del sistema aziendale, della cultura e dei valori nei quali le vicende si sono sviluppate ha quindi sempre costituito un punto di partenza fondamentale per contestualizzare il vissuto delle persone che possono aver subito un danno di natura psicologica in quel contesto.

Una decina di anni fa l’ottica con la quale la psicologia del lavoro tendeva a osservare e valutare i conflitti poneva il baricentro sugli individui, sulle dinamiche di dominanza/subalternità dalle quali scaturivano eventi di diversa entità e gravità tali da determinare conseguenze più o meno dannose sul benessere psico-fisico del soggetto/i coinvolto/i, con minore attenzione all’ambiente di lavoro e al sistema aziendale di riferimento.

Negli anni a venire le dinamiche degli eventi ai quali ho assistito hanno reso necessario operare un riposizionamento di questa prospettiva, sicuramente favorito dall’ accelerazione di fattori di contesto socio-aziendale e di mercato quali, ad es. ristrutturazioni, delocalizzazione della produzione di beni, cessione/acquisizione di aziende o di rami d’azienda, outsourcing di servizi, riorganizzazione ed integrazione di diverse culture e persone, innovazioni tecnologiche.

Ciò non significa, beninteso, che la persona venga messa in secondo piano ma che l’interazione con l’ambiente (nella accezione centrata sul clima, esplorabile, ad es. con il WES (Work Environment Scale = Questionario sull’Ambiente di Lavoro) e con l’IMPC (Inductive Measurement of Psychological Climate = Misura Induttiva del Clima Psicologico) e l’approfondita lettura del contesto socio-aziendale diventano sempre più determinanti nell’attribuire a quest’ ultimo uno specifico ruolo rispetto all’insorgere di conflitti a volte insanabili, tra le persone, che di fatto non può mai essere neutro.

Ovvero, l’assunto di partenza qui condiviso è che “il malato possa essere proprio l’organizzazione”, laddove l’organizzazione aziendale non è considerata come una scena neutrale nella quale alcune dinamiche comportamentali prendono vita ma un vero e proprio fattore di rischio, che può generare impatti negativi rispetto ad eventi che accadono alle persone che in esse lavorano. (Le cause organizzative del mobbing. Se il malato fosse l’organizzazione? a cura di Paola Caiozzo e Roberto Vaccani, Franco Angeli, 2010).

E’ stato cioè necessario ampliare il raggio d’azione ovvero smarcarsi dal concetto di relazione tra individui alla quale attribuire lo sviluppo di dinamiche negative, a prescindere dal contesto nel quale prendono forma e sostanza. Perché non è vero infatti che a “parità di soggetti coinvolti” , ciò che è accaduto avrebbe potuto esserlo in qualsiasi altro ambiente lavorativo. Questa prospettiva sarebbe riduttiva poiché attribuisce ai soggetti e alle loro caratteristiche di personalità – l’una sottomessa e l’altra dominante – la responsabilità – agita o subita – dell’insorgere e perdurare del conflitto piuttosto che domandarsi quanto certi contesti aziendali contribuiscano a determinare – o alimentare – lo sviluppo di culture aziendali perverse; realtà nelle quali i valori dominanti sono esasperati in nome della logica del profitto, del posizionamento competitivo sul mercato, della logica dell’efficienza a scapito della cultura della competenza e del suo potenziamento, attraverso la formazione e il training on the job, del merito e dell’ equità retributiva, dell’equilibrio (balance) tra vita professionale e vita privata, del diritto alla disconnessione, ecc..

Questa prospettiva consente per contro di individuare anche le aziende sane, che vigilano e tutelano i propri dipendenti evitando che le dinamiche individuali di alcuni prendano il sopravvento su altri, generando relazioni tossiche e malessere che si ripercuote inevitabilmente sulla qualità di vita delle persone e sul benessere dell’ambiente di lavoro, consapevoli del fatto che solo così si alimentano i livelli di affiliazione e si mantengono elevati gli indici di produttività.

La condivisione di questa prospettiva da parte della recente giurisprudenza in materia di lavoro ha da un lato rimarcato l’accento sulla responsabilità datoriale, sulla omessa vigilanza e sulla violazione di norme con la conseguente applicazione di sanzioni – e dall’altro ha conferito dignità giuridica, all’interno della dimensione stress lavoro correlato, anche a situazioni connotate da mobbing, straining, eristress – integrandole di diritto in un sistema di riferimento (e di responsabilità) più ampia, affermando implicitamente che la risorsa umana che ha subìto dei danni in quel sistema, con buone probabilità non li avrebbe riportati se avesse operato in una realtà virtuosa.

*psicologa del lavoro

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