“It always seems impossible, until it’s done”: sembra sempre impossibile, finché non viene fatto. È una delle molte frasi per cui Nelson Mandela verrà ricordato nei secoli dei secoli. Ah, sapevatelo: Mandela, eletto primo Presidente del Sudafrica nel 1994, fino al 2008 era ancora inserito nella lista dei sospettati di legami col terrorismo mantenuta da quel faro di democrazia e valori, da quell’esempio di amore per la pace e ripudio per la guerra (sic!) che sono gli Usa. Ma questa è un’altra storia..

La frase si adatta perfettamente al nostro caso. Quello del Fossil fuel Treaty, l’iniziativa per giungere un trattato globale di non proliferazione dei combustibili fossili nella prospettiva della lotta al “collasso climatico” (copyright Antonio Guterres, Segretario generale Onu). In poco più di quattro anni di vita, continua a macinare adesioni a vari livelli: Stati, che sono ovviamente il primo target, città e governi regionali (ha da poco aderito un’altra capitale in Europa, Atene), parlamentari (vicini ormai al migliaio, senza dimenticare le risoluzioni pro-Treaty del Parlamento Ue), scienziati e accademici, istituzioni e leader religiosi (fra cui di fatto il Vaticano attraverso il Laudato Si’ Movement), organizzazioni della società civile, istituzioni medico-sanitarie (spicca l’Organizzazione Mondiale della Sanità ed è un motivo in più per sostenerla facendo pernacchie al buffone pregiudicato che siede nello studio ovale) e via discorrendo.

Il Treaty tiene banco ormai stabilmente alle COP, il consesso internazionale più elevato (lasciando stare i suoi magrissimi risultati…) che questa povera umanità sia riuscita a darsi. Ma se ne parla anche dove magari non te lo aspetti. Ad esempio all’ultimo World Economic Forum di Davos, WEF per gli amici, sorta di “covo” di coloro che non solo hanno contribuito a plasmare il modello di sviluppo di acclarata insostenibilità che tuttora domina, ma che dallo status quo vogliono continuare a mungere profitti, costi quel che costi per il restante 99% della popolazione mondiale.

Piuttosto sorprendente, quindi. Ma ancora più sorprendente è che al WEF sia stata annunciata un’altra di quelle “prime volte” a cui il Treaty ci ha piacevolmente abituato. Ricordo la “prima volta” di una città italiana, quando Torino nel 2022 ha aderito al Treaty (poi seguita l’anno successivo da Roma), scegliendo simbolicamente per farlo il 12 dicembre, giorno dell’anniversario del Paris Agreement. A fine 2023 c’era stata la “prima volta” dell’adesione di una banca, Triodos Bank, una delle più celebri “banche etiche” a livello internazionale. Sì, perché il Treaty ultimamente, mettendo paletti e controlli ovviamente molto stretti, ha aperto al mondo del business. Lo scorso anno, poi, ha aderito anche Banca Etica in Italia. E così hanno fatto alla COP 29 – una delle poche good news arrivate da Baku – molte banche etiche del network GABV-Global Alliance for Banking on Values. Come a dire che i principali attori mondiali della finanza etica (non la finanza sostenibile o Esg, sia chiaro, che invece sta morendo di greenwashing) sono schierati senza se e senza ma contro la finanza fossile.

Qual è, allora, questa “prima volta” che ha avuto luogo al WEF 2025? Si tratta dell’adesione di Fortescue, grande società mineraria australiana. È la prima grande azienda industriale ad aderire al Treaty e per ora è la più grande a livello internazionale a farlo.

Nel valutare il commitment di Fortescue, inoltre, il team del Treaty ha riconosciuto la bontà del suo piano di transizione “real zero” al 2030 (badare: non al 2050, o magari anche più tardi), che mira cioè entro tale data all’eliminazione dell’utilizzo delle fossili. Un bello schiaffo in faccia a tutta la fuffa net zero che ci hanno propinato in questi anni, specie a partire dalla COP 26 di Glasgow in avanti, soprattutto a chi continua a raccontarci la favola – “Ci prendete per stupidi?”, per dirla con Al Gore – che grazie ai “miracoli” di carbon offset e CCS (carbon capture and storage) non c’è fretta di consegnare alla storia le fossili e tutto andrà bene, madama la marchesa. Beh, lo abbiamo appena visto a Los Angeles, come sta andando tutto bene. In attesa della prossima catastrofe, ovvio.

Insomma: si può fare, basta volerlo. Le ambizioni del Treaty, cioè, esplicitate nei suoi tre pilastri (stop all’espansione della produzione di combustibili fossili, eliminazione graduale dell’attuale produzione, impegno per la giusta transizione) sono assolutamente realizzabili. Anzi, sono “puro buon senso”, per dirla con Tex Willer. Per questo l’adesione di Fortescue dà ulteriore forza al Treaty per proporsi ai massimi livelli come una delle iniziative più credibili e più capaci di aggregare consenso globalmente che esistono oggi per lottare contro il collasso climatico.

Chissà quante volte, specie all’inizio, quelli del team del Treaty (God bless them!) si sono sentiti dire che non si poteva fare, che erano ingenui, illusi, poveri utopisti. Le stesse cose, con l’aggiunta a volte dell’accusa di fare “terrorismo ambientale”, che non so quante volte mi son sentito dire – spesso da esperti o supposti tali di sostenibilità, tra l’altro con un misto di supponenza e compassione – quando seguendo o intervenendo o moderando convegni su temi di sostenibilità e dintorni, e in particolare di finanza sostenibile, sollevavo il problema della necessità e urgenza di azioni radicali, disruptive, contro il collasso climatico. L’adesione di Fortescue è una sonora pernacchia anche in faccia a loro: “It always seems impossible, until it’s done».

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