Con i salari di oggi, un professore di scuola media per comprare una Fiat Panda deve investire quasi nove stipendi mensili. Come un funzionario dell’Università. Mentre un bidello deve metterci tredici retribuzioni. Nel 2010 all’insegnante della secondaria ne bastavano poco più di cinque, al collaboratore scolastico ne erano sufficienti otto e al terzo citato meno di sei.
Nella legge di bilancio per il 2024 il governo ha fissato l’incremento contrattuale per il triennio 2022- 2024 al 5,78%. La successiva ha incrementato di appena lo 0,22% le risorse già stanziate dalle precedenti finanziarie finalizzate al rinnovo contrattuale. Complessivamente gli stipendi saranno incrementati del 6% (mediamente 145 euro lordi mensili) a fronte di un’inflazione reale relativa al triennio 2022-2024 che è superiore al 17%. A lanciare l’allarme è la Flc Cgil che nei giorni scorsi, alla Fondazione Metes, ha presentato il dossier “Investire in Istruzione e Ricerca per far ripartire il Paese”. Al tavolo dei relatori Gianna Fracassi, segretaria generale della Flc, e il segretario generale della Cgil Maurizio Landini.
Il maggior sindacato in Italia ha voluto puntare i riflettori sul tema salario e precariato. “Di fatto il Governo impone al personale una perdita di oltre undici punti percentuali, vale a dire di circa i 2/3 del potere d’acquisto degli stipendi solo per il triennio 2022-2024″, denuncia la Cgil. “Il mancato riconoscimento degli aumenti necessari ha consentito al Governo di risparmiare ben 5,7 miliardi di euro solo per il comparto istruzione e ricerca e per tutto il pubblico impiego complessivamente 19,8 miliardi, risorse che sono state utilizzate per altre finalità rispetto all’esigenza di dare pieno riconoscimento al lavoro del personale di scuole, università, enti ricerca e Afam (dell’alta formazione artistica e musicale) e di tutti i lavoratori pubblici in generale”.
Se si prende a riferimento il periodo che va dal 2010 – anno in cui fu disposto il blocco della contrattazione che durò fino al 2018 – al 2024 emerge come la dinamica di incremento delle retribuzioni medie del personale della scuola sia stata di molto inferiore all’andamento dell’inflazione. Secondo i dati del Conto Annuale-Rgs (2022) la retribuzione annuale del comparto “Istruzione” è complessivamente inferiore di 6.900 euro (-19,7%) rispetto alla media retributiva complessiva di tutti i lavoratori pubblici, nonostante il settore Scuola abbia una forte presenza di personale con titoli di studio secondari e terziari (il titolo di accesso per l’insegnamento ormai è per tutti la laurea). In particolare la retribuzione è inferiore del 20,9% rispetto ai dipendenti dei ministeri (funzioni centrali), del 30,7% rispetto al personale della sanità, del 42,5% rispetto a magistrati e docenti universitari.
Un problema quello degli stipendi che va di pari passo con quello del precariato. “Nonostante il ministro Valditara – sottolinea la Cgil – abbia più volte affermato che la questione sia per lui una priorità assoluta, l’anno scolastico 2023/2024 si è chiuso con un record di contratti a tempo determinato: 250mila tra personale docente e Ata. Ciò significa che un lavoratore della scuola su quattro è con un contratto a tempo determinato”.
E l’anno scolastico in corso – a detta del sindacato – potrebbe chiudersi con un numero ancora più elevato di contratti a termine se teniamo presenti i dati pubblicati dal ministero nel Focus di inizio anno, che sono superiori rispetto a quello precedente soprattutto per quanto riguarda i posti in deroga sul sostegno. “Questi dati – dice Fracassi – dimostrano anche l’inefficacia delle politiche sul reclutamento dei docenti fino ad oggi intraprese: infatti, nonostante sette concorsi avviati, compreso il primo concorso Pnrr la percentuale delle immissioni in ruolo non ha mai superato sensibilmente il 50% rispetto ai posti vacanti e disponibili”.
A risentire di questa situazione sono soprattutto gli enti pubblici di ricerca. Il fenomeno ormai ha raggiunto una dimensione con numeri paragonabili a quelli che, in passato, hanno costretto il legislatore a promulgare le norme per il superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni. Parliamo di circa 6mila precari, la metà dei quali con contratti parasubordinati, in un settore con circa 25mila addetti, di cui 14/15mila ricercatori e tecnologi. Un fenomeno importante che in alcuni enti, come Cnr, Inaf (istituto nazionale di astrofisica) e Infn (istituto nazionale di fisica nucleare), rappresenta più di un terzo del personale di ruolo.
La Cgil è preoccupata perché nell’ultima Legge di bilancio il Governo ha ridotto le capacità assunzionali di questi enti intervenendo proprio sul Decreto legislativo 218/2016: “Se in futuro non ci sarà un importante finanziamento strutturale in grado di offrire adeguate opportunità di immissione in ruolo, anche attraverso processi di stabilizzazione dei contratti precari, nel 2027, quando finiranno le risorse del Pnrr, assisteremo a un vero e proprio licenziamento di massa!”.
Infine, il tema dell’alta formazione artistica e musicale: a partire dall’anno accademico 2023/2024 il ministero non rende più disponibili dati nazionali, né analitici né aggregati, sugli organici. La mancanza di dati ufficiali crea opacità e offusca una fase storica di grande espansione di questo segmento del mondo della conoscenza.