Cinema

A complete unknown, Timothée Chalamet è il perfetto sconosciuto Bob Dylan

Il biopic targato Disney è un compitino ben fatto, risoluto nella forma quanto basta per non diventare dileggio tra cinefili, circoscritto nel tempo e nel contenuto per non tirarla troppo per le lunghe per chi si annoia facilmente

di Davide Turrini
A complete unknown, Timothée Chalamet è il perfetto sconosciuto Bob Dylan

Cosa pensava e cosa pensi oggi, cosa sia stato e voglia essere Bob Dylan artisticamente e umanamente non lo scoprirete certo andando a vedere A complete unknown. Dylan, come risuona un verso di Like a rolling stone, rimane, anche dopo il film di James Mangold, “un perfetto sconosciuto”. Inafferrabile, schivo, di pochissime parole, auto oscurato dietro quei Rayban ottundenti, Dylan è l’artista che non vuole farsi etichettare in maniera identica per tutta la vita, che vuole seguire la strada musicale che gli pare, che come gli dice Johnny Cash – nel film – “continua a suonare contro i poteri forti”.

Forti o deboli che siano i poteri, ma anche la musica di Dylan già negli anni settanta, il biopic targato Disney è un compitino ben fatto, risoluto nella forma quanto basta per non diventare dileggio tra cinefili, circoscritto nel tempo e nel contenuto per non tirarla troppo per le lunghe per chi si annoia facilmente. In pratica Dylan, interpretato da un Timothée Chalamet sempre supponente e fastidioso nella performance, ma qui nella sua programmatica evanescenza e freddezza perfetto nel ruolo dell’icona sfuggente, viene seguito per una mezza dozzina d’anni: da quando da implume folk singer va a fare la serenata all’ospedale dove è ricoverato Woody Guthrie (e dove incontra il mentore Pete Seeger) – una mezza fake, dicono i biografi ufficiali – fino al concerto di Newport del 1965, quello dello scandalo dove amplifica chitarre e basso e si lancia in ritmi elettrizzati da rock and roll.

Insomma, quella raccontata in A complete unknown è la storia di una ribellione (La prima? L’ultima?) di un cantautore che prima si fa accogliere e lanciare da una comunità pura di fratelli e sorelle, divi proletari/popolari politicamente impegnati e che poi li “tradisce” seguendo suoni, accordi, ritmi e strumentazioni (l’Acme siren di Highway 61, per dire) considerate eresie ideologiche rispetto alla purezza originaria. Diversamente da I’m still there di Todd Haynes, Mangold sceglie quindi una chiave realistica nella rappresentazione di uno stralcio biografico, non pigiando i tasti di sentimentalismo e pathos, ma provando a ricostruire un’epica musicale e personale attraverso un dettato storico-temporale stringente, fatto di brani musicali più che di linee di dialogo o scene madri. Anzi, è proprio questa idea molto musical, dove i brani ascoltati (appena abbozzati sul letto, suonato dal vivo sul palco, in studio, in un bar) sono la finissima ossatura del discorso sia morale che narrativo, dove un brano parla al posto delle battute ma senza far perdere a verità del reale che comunque si dipana tra i protagonisti.

Ad esempio, Dylan incontra ovviamente Joan Baez, le parla, diventano amanti e il loro amore lo consumano e se lo trascinano negli anni tra alti e bassi, ma l’esecuzione e la composizione di Blowin in the wind in camera da letto come di It aint’ baby sul palco di Newport diventano l’elemento preponderante per capire il fluire del senso del racconto. Il tradimento musicale e politico di Dylan è tutto nel come e cosa suona in quegli spazi e in quei luoghi. Uno sforzo mica da ridere e nemmeno di immediata comprensione, soprattutto per i non fan di Mister Tambourine Man.

Eppure A complete unknown funziona proprio per questo. Tralasciando dettagli evidenti e conosciuti (Dylan usava anfetamine, ma forse Disney non ha apprezzato) e modificandone altri ad uso e consumo di sequenze più compatte (mettere dietro le quinte di un live la fidanzata tradita Sylvie che osserva il tradimento a suon di chitarra e armonica), Mangold è attento a seguire il mutismo dylaniano, l’attraversamento e la stasi da fantasma davanti la macchina da presa del nostro, assorbe non il mistero creativo, non sbrodolando mai oltre il tempo presente del racconto (no flashback, no scorciatoie didascaliche), lasciando che la politica statunitense con le sue follie nucleari e guerrafondaie si appiccichi naturalmente addosso al processo creativo del cantautore e alle sue canzoni di poetica eppure veemente protesta. A complete unknown non è infine il biopic che vive di interpretazioni invadenti. Così se la Baez interpretata da un’avvenente Monica Barbaro elude quel frichettonismo non proprio sexy dell’epoca; se Edward Norton non è somaticamente Pete Seeger ma ne evoca la bonaria e pervicace limpidezza caratteriale; se Boyd Holbrook è chiaramente un Johnny Cash venuto male; il solito altezzoso Chalamet proprio in quella sua mimesi snobisticamente sforzata riesce a riprodurre un Dylan impossibile da acciuffare, inquadrare, prevedere, quasi una figura sottilmente metafisica. Inutile dire che il soundtrack è una bomba di ricordi e di piacevole pienezza nel riassaporare il gusto di un fenomeno musicale ineguagliabile come Bob Dylan. In sala dal 23 gennaio.

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