Mentre il governo si prepara a fare nuovamente cassa sulle pensioni per ridurre le uscite in vista di una legge di Bilancio con margini strettissimi, il blocco della rivalutazione degli assegni sopra una certa cifra all’inflazione deciso poco dopo l’arrivo di Giorgia Meloni a Chigi finisce sotto la lente della Corte costituzionale. La Corte dei conti della Toscana, su ricorso di un ex dirigente scolastico che chiedeva la perequazione integrale dei trattamenti ricevuti, ha infatti sollevato eccezione di costituzionalità e trasmesso gli atti alla Consulta. Per la magistratura contabile, “la penalizzazione dei titolari di trattamenti pensionistici più elevati lede non solo l’aspettativa economica ma anche la stessa dignità del lavoratore in quiescenza” trattando le pensioni sopra quattro volte il minimo come “un mero privilegio, sacrificabile anche in un’asserita ottica dell’equità intergenerazionale”.

Al contrario, si legge nell’ordinanza, è necessario “mantenere la proporzionalità anche nei confronti dei lavoratori in quiescenza, non solo per assicurare al soggetto un trattamento economico commisurato all’attività lavorativa svolta ma per tutelare la stessa dignità del lavoratore che non può essere sminuita nel periodo successivo al collocamento in pensione”. Non è di questa idea l’esecutivo: la settimana scorsa il vicepremier Matteo Salvini, intervistato dal Messaggero, ha spiegato che l’intenzione è quella di “sostenere i pensionati con gli assegni bassi cercando di allargarne il più possibile la platea, per esempio ripetendo il meccanismo di redistribuzione dell’adeguamento all’inflazione”. Tradotto: l’indicizzazione all’aumento dei prezzi resterà parziale.

La tentazione è quella di replicare lo schema di adeguamento parziale all’inflazione applicato nel 2023 e nel 2024. L’ennesimo, considerato che fino al 2023 è stato applicato un congelamento parziale e a partire dal 2001 si contano sette interventi di raffreddamento della rivalutazione alcuni dei quali già vagliati dalla Consulta. Al momento solo gli assegni fino a 2.271 euro (quattro volte il minimo) godono della rivalutazione piena. Oltre quella soglia e fino a cinque volte il minimo viene riconosciuta un’indicizzazione dell’85%, da cinque a sei volte il minimo (da 2.839 a 3.407 euro) del 53%, da sei a otto volte il minimo (fino a 4.543 euro) del 47%, da otto a dieci volte il minimo (fino a 5.679 euro) del 37% e oltre dieci volte il minimo del 22%. A essere più penalizzati sono i titolari di trattamenti più alti, con una perdita annua stimata in quasi 8mila euro per chi supera di 10 volte il minimo. Come l’ex dirigente il cui ricorso ha portato alla decisione del giudice contabile di trasmettere gli atti alla Consulta.

Sull’altro piatto della bilancia ci sono ovviamente le minori spese per lo Stato: i risparmi di spesa attesi, pari a circa 2,1 miliardi nel 2023 stando alla relazione tecnica, sono destinati a salire quest’anno a 4,1 miliardi e raggiungere i 36 miliardi nel decennio 2023-2032. Benefici per i conti pubblici a cui il governo non sembra intenzionato a rinunciare, posto che ogni euro non speso per quel capitolo può aiutare nella caccia alle risorse per la replica di taglio del cuneo fiscale e Irpef a tre aliquote. Non è un caso se il ministro della pa Paolo Zangrillo al Corriere conferma l’intenzione di inserire in manovra una norma che consenta di trattenere al lavoro – su base volontaria – una quota di dipendenti pubblici fino ai 70 anni, contro i 67 a cui oggi scatta l’uscita automatica. Un piano mortificante secondo la Fp Cgil: “Per sopravvivere molti dovranno scegliere se essere pensionati poveri o lavoratori allo stremo delle forze”, ha commentato la segretaria generale Serena Sorrentino.

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