Ventitré suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Tre nella sola giornata di ieri, martedì. Un ventenne a Teramo, un trentatreenne a Napoli Secondigliano, un ventiseienne nel carcere di Pavia. Quest’ultimo era il trapper Jordan Jeffrey Baby. Giovani vite perse nella disperazione all’interno di un sistema penitenziario incapace di farsene carico.

In carcere ci si ammazza circa venti volte di più rispetto a quanto accada nella società libera. Il sistema penitenziario è sempre più un grande selettore di disperazione. Sempre più andiamo imprigionando le parti più deboli e meno protette della società. Non le più criminali, ma le più disperate.

In carcere si sta male, e da qualche tempo si sta ancora peggio. Il sovraffollamento crescente produce assenza di spazi vitali, condizioni di vita degradate, compressione di quel poco che residuava di vita sociale, paura, abbandono, vergogna, umiliazione. Si perde la speranza, si cancella ogni possibilità di immaginare una via di uscita, di riscatto, di recupero. Si vive ammassati ma si è tragicamente soli. In celle chiuse per quasi l’intera giornata, al terzo piano di un letto a castello, dovendo fare i turni per potersi alzare in piedi perché manca lo spazio, per venti ore su ventiquattro.

Anche gli operatori penitenziari sono lasciati soli a gestire una situazione indegna di un paese che presiede il G7. I detenuti si trasformano in numeri indistinguibili, tutt’al più etichettati come fastidiosi. Non pochi di loro presentano infatti problemi psichici, crisi di astinenza da droghe o da farmaci, disturbi comportamentali. Ma chi non li avrebbe nelle loro condizioni?

Se mai questa tragica sequenza di morti dovesse continuare a simili ritmi, raggiungeremmo numeri mai visti nella storia repubblicana. Per fermare questa strage silenziosa il ministro della Giustizia deve subito portare in Parlamento una serie di norme per deflazionare il sistema penitenziario e garantire una vita interna dignitosa. Si conceda da subito a tutti i detenuti una telefonata giornaliera, superando le restrizioni incomprensibili che oggi prevedono che ogni persona detenuta possa parlare con i propri cari non più di dieci minuti alla settimana. Si aumentino i video-colloqui. Si aiutino diecimila persone che hanno da scontare meno di tre anni di pena ad accedere a misure alternative. Si gratifichi il personale, si esalti la loro missione costituzionale.

Si emarginino coloro che invece si muovono nel solco della violenza. Si smetta di usare un linguaggio di odio. Non si dica mai più che le persone detenute devono marcire in galera o che va buttata la chiave. Si ritiri il disegno di legge governativo che introduce il delitto di rivolta penitenziaria anche per chi resiste in maniera passiva a un ordine di polizia. È un manifesto di cultura illiberale.

I tre giovani detenuti che si sono tolti la vita meritano un ricordo, un risarcimento morale. Si apra quantomeno una discussione pubblica intorno al fallimento di un sistema che è stato pensato dai nostri costituenti come volto al recupero sociale ed è invece diventato una drammatica fabbrica di morti.

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