C’è un video. Uno di quelli che ci si gira con gli amici su Whatsapp o che si pubblicano su TikTok. Un ragazzo al lavoro, qualche battuta, due tiri a una sigaretta elettronica e poi un breve saluto e un “a più tardi”, perché ci si deve mettere all’opera.

Solo che questo video è terribile. Perché le riprese risalgono a pochi minuti prima che a Brandizzo la vita di colui che l’ha girato fosse spezzata dall’impatto con un treno che correva a 140km/h. La sua e quella di altri quattro colleghi: Kevin Laganà, Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Giuseppe Saverio Lombardo e Giuseppe Aversa, tutti dipendenti della Sigifer.

Dal video emerge che quegli operai avevano già cominciato a lavorare, ma in assenza di autorizzazione. Perché Rfi sapeva bene che su quegli stessi binari sarebbe dovuto passare un treno. Emerge quello che in tanti avevano cominciato a dire: funziona così, l’autorizzazione spesso arriva a valle, a copertura di quanto già fatto. Perché bisogna andare veloci e non si può aspettare la “burocrazia”. E così, nell’epoca dell’automatizzazione e informatizzazione, sui binari in manutenzione pare che funzioni con una sorta di avviso orale: un lavoratore è attento all’arrivo di un eventuale treno e, in quel caso, avvisa a voce i colleghi, che scattano e si lanciano lontani dalla ferrovia. Proprio come viene fuori dalle parole del video.

Ma perché bisogna fare presto? Perché bisogna correre? Lo spiegano alcuni dipendenti della stessa Sigifer: “Abbiamo sempre poco tempo per i fare i lavori, dobbiamo sempre correre. Ma il tempo non lo possiamo stabilire noi, dipende da Rfi e non possiamo fare altro che adeguarci”. “Il rischio di non finire in tempo è sempre altissimo; per questo anche pochi minuti per noi sono preziosi. Loro (Rfi) pensano che sia possibile farcela ma poi siamo noi a dover lavorare”. E così alcune fonti dicono che i tempi per la manutenzione negli anni si sono ridotti da 5 a meno di 3 ore.

Quello che è successo a Brandizzo, quindi, non è l’eccezione ma la regola. E la domanda da porsi non è come sia possibile questa strage; ma quale dea della fortuna abbia protetto i lavoratori soliti a operare in queste condizioni.

La velocità prima di tutto. Perché il tempo è denaro e certo non si può rallentare – figuriamoci fermarsi – per qualche preoccupazione sulla sicurezza.

Che funzioni così oggi lo dice anche chi la “scorta” delle squadre in appalto l’ha fatta. Carrelli malfunzionanti e sistemati con riparazioni di fortuna, linee ferroviarie riaperte quando sarebbero dovute rimanere chiuse, quantità tale di polveri liberate nell’aria da ridurre la visibilità a zero. Sono tanti i problemi che sono stati segnalati ai sindacati nei soli ultimi due anni. Eppure, dall’azienda madre arriva sempre la stessa indicazione: bisogna far lavorare la ditta. In pratica: scocciate poco con questa menata della sicurezza, ché qui bisogna lavorare.

E quando qualcuno insisteva a voler fare il “precisino” semplicemente non veniva più utilizzato per quelle “scorte” e veniva spostato su altro.

Se questo è il “sistema” diventa inutile puntare il dito su un singolo individuo. Compito della politica è cercare di rimuovere le cause dei problemi. Senza possibilmente inseguire la magistratura. E allora serve altro. A cominciare dalla risposta a un’altra domanda: com’è possibile che queste imprese che così spesso non rispettano le più elementari norme di sicurezza continuano ad agire, sempre nello stesso modo, indisturbate?

Una risposta ci può arrivare da un primo numero: due. Tanti sono, secondo le parole di Michele Altamura, sindacalista Uil, a La Stampa, gli ispettori del lavoro nella zona di Vercelli e Biella. A dover coprire un totale di 25mila imprese, tra attività industriali, di costruzione e artigiane (dato calcolato sulla base dell’Annuario Statistico della Regione Piemonte). Nei controlli, però, non sono coinvolti solo i dipendenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Un compito importante viene svolto anche da quelli delle Asl. Indovinate quanti sono quelli della TO4 (l’ASL di Brandizzo)? Secondo quanto mi è stato riferito da fonte qualificata, si tratterebbe di 19 risorse per 33mila aziende, cui vanno aggiunti i cantieri.

E, purtroppo, la situazione non migliora – anzi – se allarghiamo lo sguardo ad altre zone e Regioni.

La verità è che la classe dirigente italiana (di destra centro sinistra che sia) ha messo su un sistema di controlli sui posti di lavoro che è tutto tranne che un sistema di controlli. Così le imprese non vengono disturbate (non è questa la filosofia annunciata da Giorgia Meloni nel giorno dell’investitura? Non è questa la filosofia liberista condivisa dalla quasi totalità dell’arco parlamentare? Non è stato il Pd di Renzi a portare un attacco pesantissimo proprio all’Ispettorato del lavoro) e tutti felici e contenti. Tutti tranne i lavoratori, che ne pagano le conseguenze sulla propria pelle.

Una politica che non voglia essere solo delle lacrime di coccodrillo e degli annunci dovrebbe cominciare a metter mano qui, ai controlli sui posti di lavoro. Per mettere in sicurezza chi produce la ricchezza del nostro Paese – cioè lavoratori e lavoratrici – e proteggere la vita umana. Il bene più prezioso che abbiamo.

Allo stesso tempo, però, non ci si può limitare a petizioni e denuncia politica. Non possiamo attendere nuove assunzioni all’Ispettorato del Lavoro (ne servono almeno 10mila, altro che i numeri messi a concorso negli ultimi anni) o il rafforzamento degli organismi di controllo. Perché la variabile tempo è chiave e gioca contro la vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Servono allora forme di controllo popolare, a partire da ogni singolo posto di lavoro. Serve che il sindacato si faccia strumento e veicolo di queste denunce, scudo per proteggere i lavoratori da eventuali ritorsioni. Servono gli scioperi, serve che salute e sicurezza non stiano in prima pagina solo quando c’è da fare la conta dei morti ammazzati, ma si imponga in cima all’agenda politica del Paese. Non lo faranno i liberisti di casa nostra, è necessario il protagonismo dei lavoratori e delle loro organizzazioni, politiche e sindacali.

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