Gli stupri e le violenze maschili di questi mesi (Palermo, Caivano, Firenze e altri) stanno diffondendo, sui media e nei discorsi quotidiani, l’espressione “cultura dello stupro”, che viene dagli studi di genere e traduce l’inglese “rape culture”. Negli ambienti femministi il concetto risale agli anni Settanta, è stato sviluppato appieno nei ultimi decenni e si riferisce a un insieme di credenze e abitudini, per cui uomini e donne di ogni età, estrazione sociale, educazione, censo, non solo considerano scontata, normale e accettabile l’aggressività esercitata dagli uomini sulle donne, ma la valorizzano e incoraggiano, valutandola come desiderabile, giusta, indice di virilità.

Quest’aggressività si estende su una progressione che va dalle battute sessiste al fischiare per strada quando passa una ragazza/donna, dalle parolacce misogine alla tendenza a colpevolizzare le donne per qualunque cosa, dalle pressioni e insistenze che ragazzini/ragazzi/uomini fanno sulle compagne per ottenere un rapporto sessuale, come fosse un gioco consenziente anche quando non lo è, ai casi letterali di molestie, stupri, femminicidi. Un’immagine ricorrente che si usa per spiegare la cultura dello stupro è l’iceberg: alla base – gigantesca – stanno le microaggressioni maschili quotidiane, in cima ci sono stupri, violenze e uccisioni.

Evidenzio i due problemi principali che vedo nell’uso di massa dell’espressione “cultura dello stupro”, un uso che spesso si fa con le migliori intenzioni, per contrastarla o addirittura, nella quotidianità, per spiegarla a conoscenti (donne e uomini), amiche, amici, compagni, che però “non vedono il nesso” e rifiutano tutto il discorso come la “solita esagerazione delle femministe”.

1. Il concetto di cultura è astratto e svuotato. Molti non colgono fino in fondo cosa c’entri la parola “cultura” con “stupro”, visto che cultura si usa più spesso in senso positivo, per indicare il risultato di un lavoro di studio e educazione protratto nel tempo. Associare questo significato a quello di stupro produce un crampo mentale: studio e educazione per… stuprare? Poiché non lo si ritiene possibile, la parola si svuota e diventa astratta, cioè priva di riferimenti a esperienze e casi concreti. Meglio dunque usare parole come “mentalità” e “abitudini”. Meglio ancora usare, caso per caso, le parole più vicine all’esperienza di colui o colei a cui vogliamo spiegare come e quanto l’aggressività maschile sulle donne sia frequente, inconsapevole, fatta di piccoli comportamenti e sfumature.

2. Estendere il concetto di stupro produce rifiuto. L’uso letterale della parola “stupro” sta sulla punta dell’iceberg e indica le violenze materiali di cui purtroppo pullulano le cronache. So bene che negli ambienti giuridici – non in quelli femministi – si discute cosa definire stupro e cosa no, si discutono i gradi di consenso e molte sfumature. Ma nella vita comune è chiara sola una cosa: lo stupro è qualcosa di talmente orribile e raccapricciante che la parola va tenuta alla massima distanza da sé.

Da qui nasce la resistenza, molto diffusa fra donne e uomini, ad accettare che siano messe insieme, sotto la parola “stupro”, tutte le forme di aggressività maschile verso le donne. Macché resistenza: un vero e proprio rifiuto. Che non aiuta i maschi che letteralmente non stuprano, ma ugualmente sono tutti i giorni impositivi, possessivi, autoriferiti, machisti e/o misogini a riconoscere le somiglianze, elaborarle, riflettere e provare a cambiare. Se rifiuti un concetto o un discorso non cambi, punto. Non ci provi nemmeno. Meglio allora usare parole letterali più vicine a ciò che caso per caso i maschi fanno. Meglio fare esempi concreti – sempre – per esprimere cosa viviamo come impositivo, aggressivo, offensivo, inquietante, fastidioso.

Inoltre, l’estensione eccessiva del concetto di stupro non aiuta nemmeno le donne che tutti i giorni subiscono i comportamenti impositivi, possessivi, autoriferiti, machisti e/o misogini dei loro amici, padri, fratelli, figli, compagni, a riconoscerli come tali, a difendersene, a evitarli, a cambiare se stesse e aiutare gli uomini a cambiare. È molto difficile che una madre, sorella, figlia, fidanzata, moglie, amica possa accettare che il ragazzo o l’uomo che ama e stima sia associato al concetto di stupro. Se rifiuta il nesso, non accetterà il resto del discorso. E non cambierà, punto.

Per finire, aggiungo un problema che riguarda non le persone comuni, ma i mezzi di comunicazione di massa, le testate giornalistiche (cartacee e online), la televisione. Parlare troppo di stupro sui media implica mantenerlo costantemente al centro dell’attenzione. Il rischio di fomentare casi di emulazione è alto. Last, but not least. Ultima considerazione, ma non per importanza. Né per potenza, purtroppo.

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