Da circa un mese si stanno moltiplicando le denunce di molestie sessuali nelle agenzie pubblicitarie. Tania, su Instagram, dopo aver raccontato ciò che lei stessa ha subìto, sta raccogliendo le testimonianze di tante ragazze e donne. Sul suo profilo Facebook Giulia, che solo da pochi giorni ha trovato la forza di raccontare in pubblico le molestie subìte dodici anni fa, riassume in 13 punti le ragioni per cui le donne o non riescono a denunciare o ci mettono anni a farlo: paura di ritorsioni nel settore (non mi faranno più lavorare), vergogna (mi chiederanno dettagli morbosi), sensi di colpa (mi sono comportata in modo da provocarlo?), isolamento (nessuno mi crederà) e altro.

Non è la prima volta che in Italia si parla di ripetute molestie sessuali in qualche settore professionale. Faccio due esempi. A pochi mesi dalla denuncia di Asia Argento nei confronti di Harvey Weinstein nell’ottobre 2017 – che diede origine al #MeToo statunitense, a cui la celebre rivista Time dedicò la copertina di “Person of the Year” – ben 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo italiane firmarono un manifesto dal titolo “Dissenso comune”. E risale all’aprile 2019 la pubblicazione della prima indagine italiana sulle molestie sessuali negli ambienti dei mezzi d’informazione, che riferiva di un 85% di giornaliste molestate almeno una volta nella loro vita professionale, di oltre il 66% negli ultimi 5 anni e del 42% nell’ultimo anno.

Innanzitutto ciò significa – lo sappiamo, ma vale la pena ribadirlo – che il problema non riguarda solo il mondo della pubblicità, né solo la città di Milano da cui sono partite le denunce. In secondo luogo, questo significa pure che, come è accaduto negli anni passati, il clamore potrebbe durare solo qualche giorno o, se va bene, qualche mese. L’attenzione mediatica, si sa, svanisce rapidamente e non dico che poi tutto torni come prima – perché accendere i riflettori fa sempre bene – ma il passo verso un vero e proprio cambiamento di costume nei luoghi di lavoro è sempre troppo piccolo rispetto all’enorme lavoro culturale e sociale che c’è da fare.

Intravedo, però, una differenza fondamentale rispetto ai #MeToo precedenti: questa volta a denunciare sono anche gli uomini. Il primo, infatti, è stato Massimo Guastini, noto copywriter e consulente di comunicazione, che da un mese (ma l’aveva già fatto oltre dieci anni fa) sta ripetutamente denunciando sui suoi profili social le molestie subìte da ex stagiste e colleghe (mai facendo i loro nomi, quando non vogliono, per tutelarle). Il secondo è stato “Monica Rossi”, pseudonimo di un professionista (uomo) dell’editoria, che ha intervistato lo stesso Guastini prima e poi Mario Leopoldo Scrima, che lavora nella comunicazione digitale e nell’intervista ha ammesso di aver fatto parte fino al 2021, in silenzio e con perplessità, ma pur sempre connivente, di un ambiente tossicamente machista e sessista, in cui le molestie ai danni di colleghe e stagiste erano all’ordine del giorno.

Altri professionisti (maschi) stanno un po’ alla volta mettendoci la faccia sui social e stanno invitando altri uomini che hanno assistito a pratiche sessiste a denunciare chi le ha messe in atto, ma anche se stessi per averle accettate. È l’inizio di un #MeToo (anche) maschile? È troppo presto per dirlo, ma sarebbe una differenza importante, perché finora gli uomini si erano sempre limitati a prendere le distanze dai molestatori, dicendo “io non sono così”, senza però denunciarli. Men che meno hanno denunciato se stessi per aver assistito a, o saputo di, molestie sessuali senza fermarle. Un #MeToo fatto da uomini e donne insieme. Finalmente. Questo sì, potrebbe portare a qualche cambiamento più vasto, più profondo e forse più duraturo. Anche dopo che le luci della ribalta si saranno spente.

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