Paolo Maldini è un uomo del Sessantotto. Nel senso che è nato nel 1968. Dal 1985 al 2009 ha giocato sempre e solo per il Milan, oltre che per la nazionale. Della squadra rossonera è diventato una sorta di “bandiera”, peraltro figlio del mitico difensore Cesare, altro grande pilastro della storia milanista. Il dna perfetto per incarnare il volto simbolico del Milan: poiché è stato un formidabile calciatore encomiabile per talento, intransigente professionalità, autorevolezza in campo e fuori, lucidità di giudizi e analisi.

Ha, nel tempo, assunto un ruolo di guida tra i dirigenti della società o, comunque, di gran consigliere delle sorti di una squadra abbandonata da Silvio Berlusconi ad un destino incerto, quando non gli conveniva più mantenerla ai livelli cui era riuscito a portarla sborsando, ovviamente, pacchi di miliardi (in lire) e di milioni (in Euro).

Le vicissitudini finanziarie, talvolta opache, della società hanno accompagnato per anni le prestazioni non eccelse della squadra, fino a quando, per coincidenze astrali e un assetto in campo abbastanza equilibrato e ispirato, ha vinto lo scudetto della scorsa stagione, con una formazione composta da un sapiente mix di giovani campioncini e astuti veterani, sotto l’ala protettiva (ed istruttiva) di Zlatan Ibrahimovic, il cui spettacolare e addolorato addio ha preceduto di poche ore, quello più polemico ma logico di Maldini, artefice non a caso dell’arrivo a Milanello di Ibra.

Il nuovo padrone del Milan è un italo-americano che di cognome fa Cardinale e di nome Gerry. E’ il fondatore di RedBird Capital Partners, ha 53 anni, è nato a Filadelfia. Ha un patrimonio personale di un miliardo di dollari, poco in confronto a Berlusconi ed è uno dei tanti ricchi made in Usa. Ha sborsato 1,2 miliardi di dollari per accaparrarsi il Milan, di cui vuole essere “proprietario e custode”. Non tollera melodrammi esistenziali (le istanze affettive dei tifosi) ed individuali, è un capitalista. Investe denaro perché poi renda. Senza preoccuparsi delle conseguenze. Come le mozioni d’affetto. Il capitalismo è un sistema impersonale. Mira al progressivo accumulo di ricchezza.

Il calcio è diventato ormai un cospicuo business planetario. All’interno di questo sistema contano i risultati economici, i dati ad essi relativi, e, soprattutto, il controllo. Ecco, uno come Maldini che rifiuta di assoggettarsi al ferreo controllo di Cardinale, non è in sintonia col progetto Milan della RedBird Capital Partners. In più, a suo discapito, c’è la realtà di un fallimento clamoroso: quello della campagna acquisti dopo aver vinto lo scudetto. In particolare, la grossa delusione procurata dall’acquisto del ventiduenne belga Charles De Ketelaere, pagato la bellezza di 35,5 milioni di euro (oggi ne vale già otto di meno, secondo Transfertmarkt), è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: il ragazzo ha sempre giocato male, e peggio hanno fatto gli altri comprati seguendo le indicazioni di Maldini e del suo fido braccio destro Frederic Massara.

Nel vangelo dell’ottimizzazione che è il cuore della filosofia capitalista avanzata – ricordo che Cardinale si è laureato ad Oxford nel 1991 e che per vent’anni ha lavorato alla Goldman Sachs prima di fondare, nel 2013, la sua società – i cinquanta milioni spesi l’estate scorsa da Maldini sono stati un pesante danno, negli equilibri di un bilancio e di una gestione difficili da far quadrare. Negli Stati Uniti, chi perde, paga.

Ora, lasciamo da parte il sentimentalismo e tutte le tiritere sul calcio, sport ingrato, e su come è diventato questo sport, o sulle storie che racconta, sulle emozioni che suscita, sul tifo che ne è spesso controversa anima. La realtà di oggi è che il calcio romantico non c’è più, come non ci sono (quasi) più le “bandiere”. Tradizione e personaggi della storia di un club sono ormai orpelli di un passato mitologico. Il presente è più meschino. I campioni transitano dove più loro conviene: sono professionisti, in fondo hanno ragione. Maldini lo sa, lo è stato, continua, sia pure non col pallone ma per il pallone, ad esserlo. Non avendo i miliardi per diventare padrone di un club, è costretto a lavorare per chi lo è. Ha avuto le sue chances, questo è il ragionamento di Cardinale, ma ha sbagliato. Non può pretendere di avere carta bianca. O si adegua, o se ne va. Maldini ha scelto. E’ da ammirare. Rinuncia alla grande vetrina del (suo) passato e di un Milan stratosferico che dominò l’Europa. Ma erano altri tempi.

Qualcuno potrebbe trovare difficile sostenere che la fine del rapporto con la società sia stato causato dalle delusioni (fortissime) del mercato e da quelle degli altalenanti risultati, in fondo i soldi della Champions arriveranno ancora una volta, e non sono pochi. Con Maldini (e l’allenatore Stefano Pioli) il Milan è emerso dalla mediocrità proiettandosi sino ai vertici italiani e pure europei. Ha una squadra giovane e quindi migliorabile, il cui valore si è triplicato in due anni. Ha avuto il coraggio di lasciar andar via chi pretendeva troppo, come il presuntuoso portiere Gigio Donnarumma, che la tifoseria ha subito ribattezzato Dollarumma. Ha pescato un eccezionale portiere di ricambio, forse più bravo, artefice del successo nello scorso campionato, il portiere Mike Maignan. Ha creduto nell’anziano ma superbo centravanti Olivier Giroud.

Dunque, perché Cardinale è stato così irremovibile dinanzi alle coerenti pretese di Maldini, il quale rivendica autonomia e libertà di manovra? Perché vuole che la società sia guidata da lui e dal suo staff (usa ipocritamente il concetto capitalista del “noi”, mentre il sistema alimenta competizione e feroce rivalità, sfrutta il lavoro di squadra). Cardinale liquida Maldini perché il Milan, frutto delle intuizioni e delle coraggiose scelte dell’ex capitano rossonero, ha enormi prospettive e ha un progetto di sviluppo in cui non c’è posto per aree indipendenti. Da mesi sulla testa di Maldini c’era la spada di Damocle pronta a decapitarlo: la campagna acquisti fallimentare. E, più di tutto, il carisma che a lungo andare avrebbe fatto ombra al grande manovratore della società.

Non metto in dubbio che perdere Paolo, o emarginarlo, il che è ancor peggio, sia doloroso e ingiusto, dal punto di vista dei milanisti (di cui mi onoro di far parte da sempre). Maldini è parte della storia rossonera, nella saga dei grandi capitani come lo furono suo padre Cesare, Gianni Rivera, Franco Baresi. Fedeltà ai colori, militanza senza ma e senza se nei confronti di un sodalizio sportivo e calcistico che è parte della cultura popolare milanese. Il timore di molti è che le conseguenze per il Milan potrebbero essere più gravi di quanto non lo si possa immaginare oggi, a notizia fresca e a babbo morto. La vicenda, anzi il “caso” Maldini, è infatti la prova delle contraddizioni in cui sta sprofondando il calcio, in tutte le sfumature del dramma: da sport a mero spettacolo governato solo dal potere del capitale, dove i protagonisti illudono gli spalti coi loro gesti in cui enfatizzano l’impegno e la dedizione per i colori delle magliette che indossano, salvo cambiarla al primo frusciar di banconote, se sono di più di quelle che già intascano.

Il professionismo non ha né riconoscenza né frontiere, figuriamoci se crede ai valori e ai codici etici delle comunità per cui si batte provvisoriamente. Non c’è nulla di meno scopertamente idealistico. Purtroppo.

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