Trentadue pagine che si leggono con orrore e dolore. Compongono l’opposizione presentata dall’avvocato Matteo Frezza, fratello di Francesca, la mamma di Nina, una delle piccole morte per aver contratto il citrobacter nella terapia intensiva pediatrica dell’ospedale di Borgo Trento a Verona. Un mese e mezzo fa la Procura della Repubblica ha chiesto l’archiviazione per sette casi di decessi o lesioni gravissime causati dal batterio-killer tra il 2018 e il 2020, mentre per soli due casi ha ritenuto di proseguire contestando l’omicidio colposo o le lesioni gravissime nei confronti di sette sanitari ospedalieri. Il documento chiede al gip un supplemento di perizia, visto che il collegio nominato dal pm non ha considerato l’epidemia letale come un continuum, ma l’ha suddivisa in tre parti, individuando responsabilità solo negli ultimi mesi. Questa impostazione, se accolta, farebbe cadere nell’oblio giudiziario il maggior numero dei casi.

“Quando abbiamo letto tutte le testimonianze siamo rimasti sbigottiti per la situazione del reparto. Come si fa a non dire che fu una responsabilità nella gestione della struttura?”, si chiede Francesca Frezza. Per ribaltare una perizia ne serve un’altra che ne metta in luce gli elementi contraddittori. Per questo l’atto di opposizione ripercorre, in modo angosciante, le voci dirette che descrivono un quadro ancora più agghiacciante di quello che emerse, due anni fa, dalla relazione ispettiva della Regione del Veneto, che seppe delle infezioni nel dicembre 2019 e chiuse il reparto nel giugno 2020.

“CI FURONO COMPORTAMENTI NEGLIGENTI” – “Non è condivisibile, allo stato degli atti, la conclusione della consulenza tecnica disposta dal pm che non avrebbero evidenziato condotte colpose a carico degli indagati per la posizione di Nina… – scrive l’avvocato della mamma – in quanto rientrante nella cosiddetta fase precoce, perché non ci sarebbero stati comportamenti negligenti o imprudenti, oppure misure, cure o prescrizioni non conformi a quelle consigliate per il caso di specie”.

Nina era nata l’11 aprile 2019, è morta al Gaslini di Genova il 18 novembre successivo. L’Azienda Ospedaliera di Verona si occupò di citrobacter solo il 6 dicembre 2019, dopo un articolo di Camilla Ferro sul giornale L’Arena. Il comitato per le infezioni ospedaliere si era riunito quattro volte nel 2018 e quattro volte nel 2019, senza esaminare il problema delle infezioni. “Dalle querele e dalle testimonianze emergono negligenze e condizioni igienico sanitarie critiche nel reparto di terapia intensiva”, è scritto nell’atto di opposizione.

“NON ERA UN REPARTO STERILE” – Francesca Frezza ha filmato un corriere entrato nel reparto senza protezioni per portare un pacco al banco dei medici, in centro sala. I genitori di Barbara hanno dichiarato: “Avevamo ricevuto indicazioni sul lavarci le mani, ma non ci è stato detto nulla circa l’uso dei telefoni cellulari. Abbiamo infatti scattato delle foto della bambina”. I genitori di Alice: “Il reparto è uno spazio aperto e solo dopo abbiamo saputo che erano presenti almeno quattro neonati colonizzati dal batterio. I medici donna visitavano Alice con unghie smaltate e braccialetti con pendagli, i corrieri entravano direttamente in reparto senza passare da alcun filtro igienizzante, spingendo carrelli con materiali di cancelleria. Gli infermieri circolavano con scarpe senza protezione, ma alle nostre richieste di avere delle sovrascarpe, assenti come i copricapi, ci è stato risposto che non erano disponibili e che non potevano provvedere all’acquisto in autonomia”.

Altri casi di promiscuità: praticanti medici si sistemavano gli abiti indossando i guanti sterili, che poi usavano quando trattavano i bambini, oppure calcolavano le dosi di terapia usando il cellulare personale invece della calcolatrice del reparto. Altri genitori: “Abbiamo visto infermiere che si nascondevano dietro una colonna per rispondere a messaggini sul telefono personale non protetto e poi manipolavano i neonati senza sciacquarsi le mani. Quando entravano per spegnere qualche allarme degli strumenti non avevano i camici anticontagio, giustificandosi: ‘Tanto faccio subito’”.

“A GENOVA ERA DIVERSO” – Le mancate precauzioni riguardavano un po’ tutti. I genitori di Maria: “I medici calzavano normali scarpe da ginnastica e usavano il cellulare… tutte le attività connesse alla pulizia di nostra figlia (cambio pannolini e lavaggio) venivano svolte utilizzando gli stessi supporti ed oggetti impiegati per la cura di una neonata colpita da citrobacter… le infermiere introducevano le mani nella culla senza guanti di protezione… abbiamo ripreso cambi di pannolini da parte di infermieri con le mani nude… il ciuccio di mia figlia fornito dalla struttura era fuori della culla termica in area definita come zona sporca”.

Mamma Frezza ha aggiunto: “Mi sono resa conto che le misure igieniche fossero decisamente carenti quando ricoverai Nina al Gaslini di Genova, dove il cellulare veniva messo in un sacchetto sterile”. Altri parenti hanno confermato: “A Verona bastava suonare il campanello e veniva aperto, senza controllo. A Genova poteva entrare solo la mamma, noi vedevano Nina solo attraverso il vetro”. I genitori diventavano incosapevoli portatori di germi, perché indossavano i vestiti di tutti i giorni.

LA DENUNCIA DELLE INFERMIERE – Una parente ha dichiarato: “I bambini non erano isolati uno dall’altro, anche se avevano il citrobacter. Un’infermiera mi ha detto che cinque anni prima avevano rappresentato le irregolarità e come i locali non fossero adeguati, per esempio per la presenza di un unico lavandino per operatori e genitori. Le avevano risposto che quelli erano gli spazi e si dovevano accontentare”.

Una rappresentante sindacale: “Il padiglione 29 è stato inaugurato nel 2017. Le colleghe avevano fatto notare che diverse cose non andavano bene: i punti lavaggio non erano presenti in tutte le postazioni di isolamento e per lavarsi le mani dovevano uscire dall’isolamento e per lavare il bambino dovevano portarlo al di fuori dal suo box, una cosa assurda in una terapia intensiva neonatale, come il fatto che i bambini fossero in un open space che non garantiva l’isolamento”.

Una caposala: “Ho parlato più volte con il primario dicendo che vi erano cose che non andavano bene. Io provenivo dall’ospedale di Borgo Roma dove il reparto era praticamente blindato, cosa che a Borgo Trento non era. Il medico mi aveva detto che piano piano avremmo trovato una soluzione”. Una delegata alle funzioni organizzative: “La situazione era caotica, l’ambiente non organizzato in maniera ottimale. Feci una riunione con l’ufficio di igiene nel dicembre 2019, tra le criticità c’erano le sonde rettali, lavate e sterilizzate, che nascono come riutilizzabili: ho ottenuto che si passasse all’usa e getta… Fu realizzato un isolamento funzionale nello stanzone unico: in una metà venivano messi i bambini positivi e nell’altra metà quelli negativi, ma avevo spiegato ai miei superiori che per me era opportuno isolare completamente i colonizzati. A tutte le richieste mi sono trovata porte sbattute in faccia”.

“UN’UNICA EPIDEMIA” – L’avvocato Frezza chiede al gip di non archiviare, disponendo un supplemento di perizia. Contesta la suddivisione in tre fasi, mentre sarebbe una unica manifestazione di malasanità, dal 2018 al 2020. A Verona avrebbero dovuto accorgersi che il batterio stava mietendo vittime perché i casi segnalati furono 12 nel 2018 e 15 nel 2019.

“Se la mamma di Nina non avesse denunciato agli organi di stampa quanto successo a fine 2019, molto probabilmente tutto sarebbe caduto nell’oblio, stante il clima di reticenza tra la maggior parte dei sanitari nel reparto dell’ospedale di Borgo Trento nei confronti dei genitori dei piccoli ricoverati. Molti si sono resi conto di quanto accaduto solo dopo aver letto il giornale”. Un medico però aveva ammesso con i genitori di Alice: “È da un anno e mezzo che non riusciamo a debellare il batterio…”.

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