Il nuovo temporaneo taglio del cuneo deciso il Primo maggio, anche se sommato a quello già in vigore per il 2023 e a quello introdotto da Draghi per il 2022, non basta nemmeno a compensare la perdita di potere d’acquisto da 10 miliardi subita dalle famiglie nel solo 2022 e continuata nei primi mesi di quest’anno. E gli interventi si rivelano ancora più insufficienti se si considera anche il calo registrato da metà del 2021, quando è iniziata la galoppata dell’inflazione: le cifre stanziate coprono solo il 60% dell’arretramento complessivo. È il risultato che emerge confrontando i dati Istat sul reddito reale a disposizione tenendo conto dell’aumento dei prezzi e le risorse messe in campo per sostenere la capacità di spesa e “contribuire alla moderazione salariale. Che il governo Meloni ritiene indispensabile nonostante la differenza tra aumento delle retribuzioni contrattuali e corsa dei listini abbia toccato, tra giugno 2021 e aprile 2023, i 12,9 punti.

Una premessa prima di arrivare ai numeri elaborati dal fattoquotidiano.it: la sforbiciata del cuneo avvantaggia come è noto solo i lavoratori dipendenti con reddito lordo fino a 35mila euro, mentre l’impoverimento dei consumatori riguarda tutte le famiglie comprese quelle degli autonomi e professionisti e di chi deriva il suo reddito da altre fonti. Il confronto dunque non è rigoroso, ma permette comunque una valutazione di massima sulla effettiva portata della misura presentata come “il maggior taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”. Soprattutto se si considera che l’inflazione pesa di più sulle tasche dei meno abbienti e se si tiene conto che per quest’anno non è stato rinnovato il taglio delle accise attraverso il quale erano stati contenuti i rincari delle bollette.

Potere d’acquisto crollato di oltre 13 miliardi – Stando agli ultimi conti trimestrali diffusi dall’istituto di statistica, nel quarto trimestre 2022 il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici complice l’esplosione dei prezzi energetici si è ridotto a 268,6 miliardi dai 278,9 dell’ultimo trimestre 2021: un calo di 10,3 miliardi. Se si parte dall’estate 2021 – quando il potere d’acquisto ha recuperato per la prima volta i livelli pre Covid ma l’inflazione ha iniziato a superare il 2% anno su anno – il crollo arriva a 13,6 miliardi. Questo è il dato più solido sul reale impatto dei rincari sulla spesa per consumi perché tiene conto di tutti i fattori che influenzano il reddito disponibile (da un lato imposte e contributi, dall’altro prestazioni sociali e trasferimenti). Significativo anche il fatto che nello stesso periodo gli italiani, solo per tener dietro ai rincari andati di pari passo con l’aumento della quota di profitto delle aziende, abbiano dovuto aumentare la propria spesa complessiva da 261,6 a 300,4 miliardi. A prezzo di un tasso di risparmio che si è più che dimezzato, da 11,6 a 5,3%.

Il taglio del cuneo di Draghi e Meloni copre solo il 60% – Arrivare a fine mese insomma è diventato sempre più difficile. E le politiche messe in campo dai governi non sono state minimamente sufficienti a compensare gli aggravi. L’ultimo stanziamento disposto dal decreto Lavoro per incrementare di 4 punti l’esonero contributivo concesso ai lavoratori con retribuzione annua fino a 35mila euro ammonta in termini di fabbisogno, e al netto della maggiore Irpef pagata per effetto del calo dei contributi, a 2,9 miliardi. Che si aggiungono ai 3,5 (sempre netti) previsti in manovra per confermare il taglio di 2 punti già introdotto dal governo Draghi e aumentarlo a 3 per chi guadagna fino a 25mila euro. In totale si arriva così a 6,4 miliardi. Volendo considerare anche le cifre previste dal predecessore per il 2022, pari a 1,2 miliardi per il primo taglio di 0,8 punti rimpolpati poi con 832 milioni per il 2022 per portarlo a 2 punti complessivi, si arriva a un totale di 8,4 miliardi. Poco più del 60% della perdita di potere d’acquisto subita dalle famiglie in un anno e mezzo, e senza considerare che i prezzi stanno continuando ad aumentare e in aprile si è anche interrotta la tendenza al ribasso registrata il mese prima.

Il divario tra retribuzioni e corsa dei prezzi – Nel frattempo come si sono mosse le retribuzioni contrattuali, che secondo il governo in carica devono rimanere al palo pena la pericolosa (ma inesistente) “spirale prezzi-salari“? Le statistiche Istat sui contratti collettivi aggiornate a fine aprile dicono che “nella media del primo trimestre, nonostante il progressivo rallentamento della crescita dei prezzi, la differenza tra la dinamica dell’inflazione (Ipca) e quella delle retribuzioni contrattuali rimane superiore ai sette punti percentuali”. Ma confrontando i numeri indice è possibile allargare lo sguardo al periodo estate 2021-primavera 2023. Si scopre così che tra giugno ’21 e aprile ’23 le retribuzioni contrattuali per dipendente sono salite di soli 2,6 punti a fronte di un aumento dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo Ipca (in questo caso l’ultimo dato disponibile si riferisce a marzo) pari a 15,5 punti. I più recenti dati Ocse mostrano che l’Italia è tra i Paesi che hanno subito i maggiori cali dei salari reali a causa dell’inflazione: tra la fine del 2021 e la fine del 2022 sono scesi del 7%.

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