Il governo Meloni annuncia a sorpresa un nuovo taglio del cuneo fiscale “a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi” per un valore di 3 miliardi. L’obiettivo? “Sostenere il potere d’acquisto delle famiglie” affossato dall’inflazione ma anche contribuire alla “moderazione della crescita salariale“, che come è noto in Italia è inesistente. La notizia arriva dal comunicato finale del consiglio dei ministri che ha approvato il Documento di economia e finanza, cioè il provvedimento che rappresenta la cornice della manovra. “Unitamente ad analoghe misure contenute nella legge di Bilancio”, rivendica Chigi, “questa decisione testimonia l’attenzione del governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e, al contempo, alla moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi”. La quale, pur essendo un’ossessione del numero uno di Bankitalia Ignazio Visco, in Italia non esiste: a spingere i prezzi, come riconosciuto da mesi dalla stessa Bce, sono al contrario i maxi profitti delle aziende che hanno aumentato i margini ben più di quanto giustificato dall’incremento dei costi.

Occorre aggiungere che il taglio, da dettagliare in un “provvedimento di prossima attuazione”, varrà per i lavoratori poche decine di euro al mese. Che comunque, certo, si sommeranno a quello già in vigore, che da gennaio è del 3% per chi ha redditi sotto i 25mila euro lordi e del 2% (misura adottata dal governo Draghi e prorogata dai successori) tra 25mila e 35mila euro. Per finanziare la sforbiciata sarà utilizzato lo spazio fiscale aperto dal fatto che il deficit tendenziale, cioè quello che si registrerebbe senza ulteriori interventi, si è fermato al 4,35%, mentre quello programmatico viene confermato al 4,5%.

Tornando ai numeri, nel suo primo Def l’esecutivo uscito dalle urne dello scorso 25 settembre mette nero su bianco che l’obiettivo è centrare nel 2023 una crescita dell’1%, più dello 0,6% previsto lo scorso novembre anche se in forte rallentamento rispetto al 2022 quando il progresso dell’economia è stato del 3,7% complice l’onda lunga della ripresa post Covid. La stima è ben sopra quella appena aggiornata dal Fondo monetario internazionale ma supera solo dello 0,1% il tendenziale, cioè l’andamento che si registrerebbe senza alcun intervento di politica economica.

Limitata, dunque, la spinta attesa dal poco deficit aggiuntivo che si intende mettere in campo rispetto al tendenziale. Ad alimentare ulteriormente il prodotto avrebbe dovuto essere la spesa dei fondi del Pnrr, che però arranca. Nel 2024 il pil salirebbe invece, stando agli auspici, dell’1,5% (dall’1,4 tendenziale): meno dell’1,9% previsto nella Nadef dello scorso autunno, ma il doppio rispetto alla stima di fine marzo dell’Ufficio studi Prometeia e nettamente al di sopra delle previsioni del Fmi (+0,8%). Il deficit viene invece confermato al 3,7% nel 2024, nonostante il ritorno in vigore – al netto dell’attesa riforma – dei parametri del patto di Stabilità. “Per il 2024, le proiezioni di finanza pubblica mostrano che, dato un deficit tendenziale del 3,5 per cento, il mantenimento dell’obiettivo del 3,7 per cento del Pil creerà uno spazio di bilancio di circa 0,2 punti di Pil, che sarà destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, al finanziamento delle cosiddette ‘politiche invariate’ a partire dal 2024 e alla continuazione del taglio della pressione fiscale nel 2025-2026, e concorrerà a una significativa revisione della spesa pubblica e a una maggiore intesa tra fisco e contribuente”, si legge nel comunicato di Chigi. Resterà ben poco spazio per l'”abolizione della Fornero” promessa in campagna elettorale. L’indebitamento calerebbe al 3% solo nel 2025, per poi ridursi al 2,5 nel 2026.

Il debito pubblico è atteso assestarsi dal 144,7% del 2022 al 142,1% nel 2023. Le stime programmatiche lo vedono diminuire più di quanto dicevano le indiscrezioni delle ultime ore: 141,4% nel 2024 e 140,9% nel 2025, “fino a raggiungere il 140,4% nel 2026”. Il governo non manca di sottolineare che il calo sarebbe stato più pronunciato “se il superbonus non avesse avuto gli impatti sui saldi di finanza pubblica che sono stati finora registrati”. Il debito, che si calcola secondo criteri di cassa, aumenterà infatti quest’anno e nei prossimi mano a mano che i crediti di imposta si trasformeranno in uscite vere e proprie per lo Stato. Al contrario aiuta – come accade per tutti gli Stati molti indebitati – il forte aumento dell’inflazione, che gonfia il pil nominale. Ovvero il denominatore del rapporto a cui guarda la Commissione europea.

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