Nel maggio 1998 la fascia pedemontana della montagna di Sarno, il Pizzo di Alvano, e in particolare i comuni di Sarno, Siano e Bracigliano, in provincia di Salerno, e di Quindici, in provincia di Avellino, fu scarnificata dalle piogge prolungate che determinarono una sequenza impressionante di colate di fango.

In quei giorni, nell’arco di circa 16 ore dalle 14 del giorno 5 alle 6 del giorno 6, ci furono più di 140 movimenti franosi che innescarono 40 colate di fango. Nel complesso furono mobilizzati oltre due milioni di metri cubi di materiale che distrussero 178 case e ne danneggiarono oltre 450, provocando 159 vittime.

Ogni colata di fango aveva caratteri affatto peculiari, con volumi che giunsero fino a 180 mila metri cubi, mobilitati talora in più colate successive. Gli eventi meteorici avevano prodotto numerosi fenomeni di distacco in sommità, dove la pendenza delle testate di impluvio supera trenta gradi e dove vi erano discontinuità strutturali: concavità morfologiche, cornici di morfo-selezione, impluvi occulti.

Le discontinuità antropiche la fecero da padrone: sono i tagli artificiali prodotti per realizzare strade e sentieri montani o anche, in casi più limitati, dove cambia il tipo di copertura vegetale. E, nella gran parte dei casi, le culle di distacco erano nei terreni posati sopra l’orizzonte pomiceo, quello creato dall’eruzione di Avellino del 3.800 a.C.

I distacchi, spesso di volume limitato, si trasformarono in colate di materiale fino, misto ad acqua, confluite poi nelle incisioni che solcano i versanti. Nel loro tragitto le colate mobilitarono altro materiale, asportando la terra accumulata sul fondo dei canaloni, erodendo le sponde, scalzando al piede il materiale depositato sui versanti. Le colate raggiunsero infine le zone pedemontane, densamente popolate, sprigionando un enorme potenziale distruttivo. Volumi di fango fino a centinaia di migliaia di metri cubi scesero a folle velocità, anche più di dieci metri il secondo. Nelle aree colpite, i recapiti finali erano quasi inesistenti, cancellati dagli insediamenti, poiché il drenaggio era stato ridotto, in molti casi, a un alveo-strada o confinato in tombini di dimensione inadeguata.

Con Pasquale Versace ho condiviso parte della mia esperienza scientifica, a partire dall’utopia dell’Università della Calabria creata da Beniamino Andreatta. Versace è stato per cinque anni (dal 2000 al 2005) Vice-Commissario di Governo a Sarno. Si sa che la Campania ha da sempre una elevata pericolosità e, nello stesso tempo, molte aree riparie hanno una enorme esposizione e una marcata vulnerabilità: un malato quasi incurabile. Quando gli chiesi se ci fosse una chiara coscienza di tutto ciò nell’area colpita, mi disse: “Si tratta di eventi che si sono verificati con elevata frequenza in Campania perché sono legati all’instabilità delle piroclastiti che periodicamente il Vesuvio deposita sui versanti. Tuttavia la memoria locale gioca un ruolo rilevante. A Quindici un evento simile anche se meno intenso si era verificato uno o due anni prima del 1998 e quindi c’era un minimo di conoscenza dei potenziali effetti. Qui la risposta è stata relativamente efficace, con lo sgombero di un gran numero di case. A Sarno non c’era memoria e quindi si sono fatte scelte sbagliate come quella di considerare la casa un rifugio sicuro”.

Il fango non è stato cruciale solo a Sarno 25 anni fa, in Val di Fleres nel 2022, a Gera Lario in più occasioni. Nel 2002, Giampilieri pianse più di trenta morti, colpita dalle colate di fango dopo che, solo due anni prima, aveva già invaso il paese senza fare vittime e senza insegnare nulla.

Le colate di fango o anche soltanto l’alto tasso di concentrazione dei sedimenti è un fattore cruciale di rischio quasi ovunque. E si tratta di fenomeni frequenti e diffusi, anche se non sempre devastanti come la colata rapida di fango che nel 1986 fece 8 vittime a Palma Campania o quelli che fecero scoprire la Villa Romana di Minori nel corso dei lavori di deviazione del torrente Rheginna minor a seguito della terribile alluvione del 1954 nel salernitano.

Come ricordo in Bombe d’acqua. Alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio (2017), in soli otto mesi non particolarmente calamitosi come i primi mesi del 2016, colate di fango disastrose furono registrate a Perloz in Valle d’Aosta; Cassine, Novalesa e Oulx in Piemonte; Limone, Valmasino, Brianza lecchese, Berzo San Fermo, Adrara San Martino, Valchiavenna in Lombardia; Comano, Terragnolo, Altopiano della Vigolana in Trentino; Acquabona, Rocca Pietore, San Pietro di Cadore in Veneto; Remanzacco in Friuli Venezia Giulia; Dovadola e Piacentino in Emilia Romagna; Vernazza e Arcola in Liguria; Empolese Valdelsa in Toscana; Servigliano nelle Marche; Norcia in Umbria; Civitavecchia, Tarquinia e Montalto di Castro in Lazio; Chiarino negli Abruzzi; Trivento in Molise; Putignano, Conversano, Castellana e Turi nelle Puglie; San Marco di Castellabate e Atrani in Campania; Metapontino in Basilicata; Bagnara e Sant’Eufemia di Lamezia Terme in Calabria; Gioiosa Marea e Paternò (salinelle) in Sicilia.

E sono località spesso ricorrenti nel catalogo dei disastri, a loro volta frutto di fenomeni complessi dove l’innesco delle colate può anche essere agevolato dagli incendi boschivi (v. Figura 1);

o dalla densità e morfologia delle strade e dei sentieri (v. Figura 2).

La vera, solida, primitiva arma di difesa è la consapevolezza. Soltanto dopo c’è tutto il resto dell’arsenale scientifico, tecnico e culturale di cui disponiamo per mitigare questa particolare tipologia di disastri.

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