Cultura

Lo Scaffale dei Libri, la nostra rubrica letteraria: diamo i voti a “Annalena” di Benini, “Disdici tutti i miei impegni” di Argentero e “LA ricreazione è finita” di Ferrari

di Davide Turrini e Ilaria Mauri

Dopo aver letto le prime 25 pagine di Annalena (Einaudi), in sostanza l’esordio romanzato di Annalena Benini, neo direttrice del Salone del Libro di Torino, ci si chiede: ma dove sono rimaste nascoste questa scrittrice e questa prosa fino ad oggi? Non che tra figli&fogli non avessimo apprezzato l’approccio al galoppo, l’energia profusa, i grumi culturali peculiari della Benini in chiave giornalistica. Perché il punto qui è un altro. I primi due capitoletti, e anche il resto di Annalena, ma poi ci torniamo, scorrono con penetrante baldanza, con ritmico rotolare naturale dei periodi, anafore battenti (“chiediamo…, chiediamo…, chiediamo”) e l’affermarsi dell’io narrante attraverso l’uso generoso dei due punti che apre e rilancia di continuo. Annalena è un memoir sdoppiato, sovrapposto, una duplicità singolare che accomuna due figure femminili: l’Annalena scrittrice, donna, madre (forse anche moglie), che fa carriera, si trasferisce dalla bassa emiliana all’universo romano, mantenendo quell’idealità di una solitudine attiva, propositiva, finanche felice, che in qualche istante sembra finire per essere colpa individualista e sommaria; e l’Annalena missionaria laica, vera lontana parente emiliano romagnola dell’altra Annalena, che rifugge dalla contemporaneità occidentale per profondere amore incondizionato in zone dell’Africa flagellate dalla miseria, dal caldo atroce, dalle malattie mortali, dalla mancanza di mezzi materiali per sopravvivere. È nel momento di degenza complessa dopo un improvviso ricovero ospedaliero che Annalena giornalista-scrittrice recupera e descrive dati privati e gesta pubbliche dell’Annalena missionaria (persona realmente vissuta e conosciuta alle cronache fino alla sua morte in Sudan per omicidio nel 2003): la osserva, la ammira, quasi – ma non del tutto – la idealizza. Annalena, il romanzo, da un lato assorbe e mostra tracce di “piccolismo”, quell’insistenza all’inadeguatezza del proprio sé alla Francesco Piccolo, e sconfina, forse non volontariamente, ma con una certa classe stilistica nel campo del doppio speculare alla Carrère. Benini insiste spesso su quel non essere (“la fodera estiva della poltrona”) di woolfiana memoria, anche se detiene ed usa mezzi poetici autonomi – lo humor alquanto feroce seppur elegante verso il maschio, l’evocazione poeticamente incredibile delle due nonne diverse per comportamento e cultura – per ri-costruire un femminile solitario e potente (Fallaci e Insciallah) che dopo una sorta di sottofinale dove si accavallano (fin troppo) autrici celebri e relativi riferimenti, chiude il cerchio dell’esempio morale (Annalena missionaria dormiva per terra, non voleva aver rapporti con l’altro sesso, donava ogni bene materiale al prossimo) lasciando che sia l’osservata a primeggiare quasi a cancellare l’esistenza stessa dell’osservante. Buffo il ricordo delle “risate bolognesi”. Come buffo è l’uso del termine “rusco” per il pattume, in uso solo ed esclusivo (alle radici linguistiche ci si tiene) nel medesimo capoluogo emiliano. Voto: 8,5

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