Negli ultimi tempi non si parla d’altro che d’intelligenza artificiale, ma per fortuna resta ancora un po’ di spazio – speriamo che duri – per l’intelligenza naturale. Naturalmente intelligente, oltre che meravigliosamente originale, poetico, coinvolgente, contemporaneo e socialmente impegnato è JR. Parliamo del grande artista francese di origini tunisine che, con questa sigla, si è affermato nel panorama internazionale mettendo d’accordo pubblico e critica.

Mi piace parlarne per una serie di motivi, e il pretesto – ottimo pretesto – è la grande mostra (la sua prima personale in Italia) che a Torino gli dedicano le Gallerie D’Italia col titolo “JR – Déplacé∙e∙s”, visitabile fino al 16 luglio.

JR è un artista che non si autodefinisce fotografo ma usa la fotografia molto meglio di tanti fotografi, dunque è forse “il miglior fotografo dei non fotografi”. A JR non interessa la fotografia in quanto fine, ma come mezzo per dare altro e soprattutto per fare altro. Avrete già capito che ammiro sconfinatamente il suo approccio alle cose e alla vita, che poi passa attraverso il suo “megafono visionario e visivo”.

Il percorso di JR è partito, come per tanti, dai graffiti sui muri delle banlieue, affermazione di sé in un mondo che guarda altrove. Dunque, fin da adolescente, operazioni “stradali”, urbane e sitespecific, fuori da templi e circuiti consacrati all’arte.

Strada facendo – mai espressione fu più calzante – JR ha iniziato a usare la fotografia. I fotografi, quando partoriscono le loro immagini, pensano, di volta in volta, a destinazioni in ambito editoriale, collezionistico, museale, pubblicitario, giornalistico, eccetera. JR pensa, prima di tutto questo, alle persone, che sono l’inizio e la fine delle sue creazioni; la fotografia pensata per le persone è una gran bella cosa, che solitamente i fotografi-fotografi non praticano, puntando piuttosto a colpire gli addetti ai lavori.

A Torino, come in ogni parte del mondo, le sue installazioni vivono a partire da fotografie, e il verbo vivere è quello che fa la differenza: non sono, le sue, fotografie da contemplare, ma da contribuire a far vivere: JR coinvolge cittadini, passanti e curiosi per farli diventare parte integrante delle sue operazioni attorno alle immagini. Quando, per volere di JR, il ritratto di un bambino africano viene a trovarci e a sorriderci dal suo povero villaggio di baracche, noi lo portiamo in trionfo per le vie della nostra città: il suo sorriso, quegli occhi vispi, allegri e tristi allo stesso tempo, le sue gambette che camminano verso il domani, prendono la forma di un telone ampio svariati metri che centinaia di mani – le nostre mani – reggono come si regge la statua del santo in processione. E’ la santificazione laica e gioiosa di un nostro fratello.

Tutta l’opera di JR, in qualche modo, tende a questo: l’avvicinamento sociale, illuminando chi di solito resta in ombra. Un utilizzo della fotografia che crea, in un grande gioco collettivo, vicinanza, empatia, commozione; un utilizzo politico, in sintesi, nel senso più alto.

Per esempio, a L’Avana come a Shanghai e in altre città, ha ritratto gli abitanti dei quartieri destinati a scomparire per poi incollare le foto dei loro volti, in dimensioni gigantesche, sui muri esterni di queste case prossime alla fine, popolando le strade di presenze che, tutte insieme, ci guardano e ci ammoniscono. Dove le rughe degli anziani abitanti si sovrappongono, anche fisicamente, alle crepe di quei muri antichi segnati dal tempo. Ecco: la fotografia vive, urla, piange, ride, gioca, pensa. Ci guarda più che voler essere guardata. La sua potenza e la sua funzione cambiano pelle nelle mani di questo artista che crede nella fotografia non come feticcio ma piuttosto come antenna che mette in comunicazione, ibridandola naturalmente con altri mezzi tra cui, in primis, il video. Anche come regista ha prodotto piccoli e grandi gioielli, tra cui il memorabile film Visages, villages, in viaggio tra chiacchiere, fotografie, litigi e visioni assieme alla regista Agnès Varda.

Quella che ci indica JR è la consapevolezza di come la fotografia può lavorare per restituire la sua vocazione più ambiziosa: produrre un pensiero che diventa azione utile al singolo e alla collettività. JR, dunque, ci dimostra come non serva dichiararsi fotografi, perché non è il biglietto da visita a dirlo, ma quello che con la fotografia si fa.

Seguimi su Facebook e Twitter

Articolo Successivo

Lo Scaffale dei Libri, la nostra rubrica letteraria: diamo i voti a “Annalena” di Benini, “Disdici tutti i miei impegni” di Argentero e “LA ricreazione è finita” di Ferrari

next