di Stefania Rotondo

Le potenze mondiali bramose di essere imperi hanno sempre provato un’invidia storica dell’antica Roma. Sono ancora vive nella memoria collettiva europea l’ambizione e l’aspirazione del concetto dell’imperialismo romano nel simbolismo e nell’identità del Terzo Reich o del fascismo mussoliniano. È accaduto anche alla Russia; lo storico Ključevskij nel XIX secolo, consapevole della mancanza nella storiografia russa del concetto della grandiosità dell’impero romano, creò un’aureola imperiale intorno all’entità monarchica di Kievskaja Rus, il più antico Stato organizzato slavo-orientale, del quale Kiev fu a lungo la capitale. Putin ricorda spesso a noi occidentali, nei suoi deliranti discorsi, che la Russia è ancora la Terza Roma, l’erede dei Cesari, passata attraverso l’Impero d’Oriente, e che Kiev è stata, è e sarà sempre il cuore della ‘grande Russia’.

Caso a parte gli Stati Uniti, che rifiutano la forma imperii, pur essendolo a tutti gli effetti. I Padri fondatori, prendendo a riferimento Ottaviano Augusto capace di travestire l’impero in repubblica, hanno creato un sistema fondato alla fine del ‘700 (insorgendo contro il giogo inglese, permettendo agli americani di creare la loro geografia, conquistando un continente vergine, a dir loro disabitato da pellerossa e bisonti) non per essere una democrazia (né nella Dichiarazione di Indipendenza, né nella Costituzione compare la parola ‘democrazia’), ma per essere una collettività centrata sulla libertà del singolo. Il popolo americano è rimasto pioniere, libero, ‘inventato’ perché proveniente da varie parti del mondo, ed è per questa sua narrazione che rifiuta lo status di impero, perché l’individuo è sacro, e le istituzioni costituzionali servono per essere a suo completo servizio, e dunque faticosamente variegate, in continuo conflitto, e ciclicamente soggette a crisi identitarie.

Ma come dice Lucio Caracciolo in un editoriale di Limes di qualche mese fa, gli Stati Uniti d’America, contrariamente a come si raccontano, non sono solo ‘l’impero’, bensì più imperi. L’originario, quello del continente nordamericano, dall’altro capo del mondo, lontano geograficamente da qualsiasi guerra, ricco di materie prime, abbracciato da due oceani e confinante con l’alleata Canada e con il retrogrado Messico (già questo gli darebbe ad honorem il primato di ‘impero degli imperi’). Il secondo, l’Occidente tutto, conquistato nella seconda guerra mondiale e che si estende, nella visione americana non solo geografica ma soprattutto ideologica, dal Nord America all’Europa della Nato, fino all’Oceania, al Giappone, alla Corea del Sud e alle minori Asie, ed è per mantenere questo impero da oltre 100 miliardi di dollari che gli Usa muovono per interposta persona contro la Russia invaditrice una guerra.

Il terzo è l’impero dei fondali marini, ricchi di metalli preziosi che servono per produrre tecnologie, dove si gioca il futuro, ovvero la transizione ecologica, e che gli Usa stanno cercando di mantenere a tutti i costi, compresa con molta probabilità una futura guerra contro la Cina. Il quarto è quello dello spazio, al di là dell’atmosfera terrestre, dove gli americani cercano di mantenere il proprio dominio. Così come, continuando su questa linea, immaginiamo l’impero del cyberspazio, dominio molto contestato, dove gli americani devono ancora primeggiare.

E poi ce ne è uno esclusivo, soprannaturale, quello più ‘altruista’, che è la missione che Woodrow Wilson, 28esimo Presidente, pensò essere stata affidata all’unselfish Commonwealth da Dio per salvare il mondo intero. La Costituzione americana non cita la parola ‘democrazia’, è difficilmente emendabile ed è piena di accorgimenti per evitare il prevalere della tirannide della maggioranza – cosicché la Corte Suprema detta legge.

L’America non vuole essere assimilata all’impero romano, ma dal latino ha preso il suo motto, e pluribus unum, ‘dai molti, uno soltanto’. Un modo per travestire l’impero in democrazia che esporta con armi e guerre.

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