Cinema

Quando, il film di Walter Veltroni è un estenuante e spompato Goodbye Lenin

di Davide Turrini

Se volete flagellarvi di cinematografico cilicio, Quando di Walter Veltroni fa al caso vostro. Nostalgici mai domi degli anni pesti dell’Ulivo, dei falsi tentennamenti tra massimalismo e riformismo (tutta scena, riformismo neoliberista a manetta), ma soprattutto di un cinema spompo, esangue, in auto dissolvenza (e distruzione) perenne, ecco è la vostra ora. La storia è nota, anche perché ci aveva pensato pressappoco e senza l’enfasi paravento del solito Berlinguer (morto) il tedesco Wolfgang Becker nel 2003 con Goodbye Lenin. Giovanni (Neri Marcorè) partecipa da 18enne ai funerali del segretario del PCI nel giugno del 1984, ma gli finisce un’asta di una bandiera sul cranio, stramazza al suolo, e rimane in coma per 31 anni. Al risveglio miracoloso Giovanni si ritrova senza diploma di maturità, con un vuoto storico temporale sconcertante, con la moglie che si è sposata con il suo compagno di liceo e una figlia ormai adulta, ma soprattutto accompagnato nel recupero sensoriale e storico da un’affezionata suorina (Valeria Solarino).

Non preoccupatevi però la perdita della memoria affiora in timidi e cunicolari flashback girati con un occhio chiuso e l’altro mezzo aperto. Veltroni il film lo apre alla Kubrick, o alla Jonathan Demme de Il silenzio degli innocenti, con una lunga carrellata frontale ad aprire sulla suora in tuta che fa jogging nel parco per qualche decina di secondi, indossando le cuffione da rapper di strada. Avete capito? Mica chiacchiere e distintivo. Peccato però che al terzo minuto si stazioni già in un lungo, estenuante, tramortente dialogo a due tra Giovanni e la suora, sorta di matrice drammaturgica melodrammatica che si ripeterà piombata, incatenata al suolo dell’impossibile creazione per tutto il film con piccole variazioni di figura: Giovanni e la suora, Giovanni e la moglie, Giovanni e il ragazzino obeso taciturno della clinica di riabilitazione, ecc. Ogni blocco a due una mazzata sulla nuca della naturale sopportazione. Ogni blocco a due un campo e controcampo (o terribile variazione inquadratura “cruscotto” alla Moretti). Ogni blocco a due un passo verso un tragico assopimento. Ma soprattutto ciò che colpisce di colui che dopo una carriera politica perfino ministeriale e da recensore de Il Venerdì di Repubblica si è dato al cinema è che se prima misurandosi con il reale risultava una “Barbara D’Urso del documentario”, quando favoleggia di fiction è una sorta di Rosy Bindi dell’erotismo.

Ovvero impone ai suoi personaggi un silenziamento della libido che lascia basiti. Una roba molto castamente morettiana, un guscio inespresso di friccicore individuale che affoga qua e la in un imbarazzante ricordo ovattato surreale (il “compagno” Mago – Forest ndr – che non sa fare i trucchi alle Feste de l’Unità – sic!) e in una beatitudine da borghesia progressista accigliata made in sorelle Comencini a cui basta un cenno di critica sociale al teatrino della tv del dolore (un minuto circa) per dirsi moralmente soddisfatti. Quando – c’è pure il libro alla base dello script – è imperdibile per i nostalgici goduriosi ex comunisti dello strappo liberista post ’89 proprio per questo unicum poeticopolitico veltroniano: figurine, flipper, spuma, riformismo spinto modello spirito santo (a Giovanni del resto interessa solo delle corna ricevute) e una suora bonazza a cui dare un bacetto sul labbro superiore come un Forrest Gump qualsiasi. Sul posto delle fragole finale di Non ci resta che piangere stendiamo il velo pietoso di chi deve citare dimostrando didascalicamente la sua conoscenza cinefila (ricordate quel: “è Jean Pierre Leaud!” In C’è tempo) spesso protesi posticcia in un già traballante senso della rappresentazione nella rappresentazione. L’illuminotecnica invade ogni scena di luce, vetri, sole che nemmeno Janusz Kaminski. Ma soprattutto a visione conclusa di Quando aleggia una domanda: ma Veltroni girerà ancora un altro film?

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