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Financial Times attacca la cucina italiana: “Il parmigiano vero è del Wisconsin”. La durissima replica della Coldiretti: “Preoccupante”

di F. Q.

Tra la farina di grillo per fare la pizza e la cipolla nel gelato, nel 2023 non potevamo che tornare a parlare del Parmigiano (e alla Carbonara) del Wisconsin. Cade a … fagiolo l’intervista che lo storico del cibo, Alberto Grandi, ha concesso al Financial Times qualche giorno fa. Sia chiaro, nulla di nuovo che già non fosse apparso nel celebre e provocatorio volume che Grandi, docente all’ateneo di Parma, aveva pubblicato nel 2018: Denominazione di origine inventata (Mondadori).

In pratica, la tesi di Grandi da diverso tempo è che il marketing con le sue narrazioni ha costruito una tradizione antica al cibo italiano che in realtà non avrebbe. Dall’intervista al FT, l’autrice Marianna Giusti, scrive “il parmigiano, dice (Grandi ndr), è straordinariamente antico, ha circa un millennio. Ma prima degli anni ’60, le forme di parmigiano pesavano solo circa 10 kg (rispetto alle pesanti forme da 40 kg che conosciamo oggi) ed erano racchiuse in una spessa crosta nera. La sua consistenza era più grassa e morbida di quanto non lo sia oggi”. E fin qui, come dicevano nel film L’odio, tutto bene. Giusti citando Grandi continua: “Alcuni dicono addirittura che questo formaggio, come segno di qualità, doveva spremere una goccia di latte quando veniva pressato (…) La sua esatta corrispondenza moderna è il parmigiano del Wisconsin”.

Poi Giusti continua: “Crede (Giusti ndr) che gli immigrati italiani dell’inizio del XX secolo, probabilmente dalla regione del Po a nord di Parma, abbiano iniziato a produrlo nel Wisconsin e, a differenza dei casari di Parma, la loro ricetta non si è mai evoluta. Così, mentre il parmigiano in Italia è diventato nel corso degli anni un formaggio a pasta dura e dalla crosta chiara prodotto in forme giganti, il parmigiano del Wisconsin è rimasto fedele all’originale”.

Passiamo alla “carbonare”. E qui il punto si fa, come per tutti gli studi e l’analisi di Grandi filosofico-politica. In quanto il docente prende a modello una serie di considerazioni dello storico marxista Eric Hobsbawm rispetto a “l’invenzione della tradizione”. “Quando una comunità si trova privata del suo senso di identità, a causa di qualsiasi shock storico o frattura con il suo passato, inventa tradizioni che fungono da miti fondanti”, spiega il prof. Grandi si riferisce precisamente al periodo del primo dopoguerra italiano, dove la mitologia fondativa della cucina italiana è stata riscritta. Sulla carbonara, appunto, cala la scure dell’invenzione. L’autrice del pezzo scrive che per capire il punto di vista di Grandi sulla “carbonara” chiama un anziano signore suo amico. “I suoi pasti d’infanzia erano principalmente minestra , fagioli e verdure dell’orto di famiglia, spiega. Quando gli chiedo della carbonara, un presunto alimento base della cucina romana, distoglie lo sguardo dalla telecamera: ‘Forse una volta all’anno mangiavamo l’amatriciana, quando potevamo permetterci di ammazzare un maiale. Ma non avevo mai sentito parlare della carbonara prima della guerra’”. Bingo, insomma. A cui si aggiunge la ciliegina sulla torta dello storico del cibo Luca Cesari, autore di Breve storia della pasta, che segnala come la carbonara sia “un piatto americano nato in Italia” nato durante la seconda guerra mondiale, precisamente nel 1944 a una cena a Riccione per l’esercito americano. A quanto riportano le testimonianze di allora “gli americani avevano pancetta favolosa, panna molto buona, formaggio e tuorli d’uovo in polvere”. Ma soprattutto il mito secondo cui la carbonara era il cibo dei carbonai italiani del XVIII secolo è antistorico. Insomma, sorpresa: “le prime ricette della carbonara sono sorprendentemente varie e la più antica è stata stampata a Chicago nel 1952”. Morale della favola, o della tavola: meglio spulciare bene le fonti dirette anche nel campo culinario.

La replica della Coldiretti non si è fatta attendere: “Dal Financial Times arriva un attacco surreale ai piatti simbolo della cucina italiana, proprio in occasione dell’annuncio della sua candidatura a patrimonio immateriale dell’umanità all’Unesco”. Si legge ancora nella nota: “Un articolo ispirato da una vecchia pubblicazione di un autore italiano che potrebbe far sorridere se non nascondesse preoccupanti risvolti di carattere economico ed occupazionale. La mancanza di chiarezza sulle ricette made in Italy offre infatti terreno fertile alla proliferazione di falsi prodotti alimentari italiani all’estero dove le esportazioni potrebbero triplicare se venisse uno stop alla contraffazione alimentare internazionale che è causa di danni economici, ma anche di immagine”.

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