Adesso manca solo la Cassazione per dare giustizia, dopo quasi 30 anni, ad Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, i due carabinieri uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada all’altezza dello svincolo di Scilla, in provincia di Reggio Calabria. Dopo oltre 7 ore di camera di consiglio, la Corte d’Assise d’Appello presieduta da Bruno Muscolo (a latere il giudice Giuliana Campagna), ha confermato la sentenza di primo grado del processo ‘Ndrangheta stragista e ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro.

Carcere a vita: così come aveva fatto la Corte d’Assise nel luglio 2020, anche i giudici di piazza Castello hanno sposato l’impianto accusatorio sostenuto in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dal sostituto Walter Ignazitto secondo cui l’agguato ai carabinieri rientra nelle cosiddette “stragi continentali”. Per la Dda, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri, infatti, quel duplice omicidio e gli altri due attentati ai danni di altrettante pattuglie dell’Arma facevano parte di quella strategia stragista che ha insanguinato l’Italia e che è stata messa in atto da Cosa nostra e ‘Ndrangheta nella prima metà degli anni ‘90. Non è un caso che, nella sentenza di primo grado, si parli di “una strategia unitaria per destabilizzare lo Stato”.

Unitaria perché “la ‘Ndrangheta agì d’intesa con Cosa nostra siciliana”. Affiancato dal sostituto della Dda Walter Ignazitto, il procuratore Lombardo lo ha ripetuto più volte nella requisitoria durante la quale ha lanciato pure un appello al boss di Brancaccio: “Quando Graviano troverà la forza di dirci chi gli ha chiesto il proseguimento della strategia stragista già in atto, avremo un ulteriore tassello di verità”. Al momento quella forza Graviano non l’ha trovata così come non ha mai spiegato la frase (“Abbiamo il Paese nelle mani. I calabresi si sono mossi”) che, stando alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, avrebbe detto a quest’ultimo nel famoso incontro al bar Doney di via Veneto a Roma. Secondo i magistrati, tanto gli attentati dei carabinieri in Calabria quanto il progetto della strage all’Olimpico, dove sarebbero dovuti morire 55 militari dell’Arma, rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista”.

Dalla strage di via dei Georgofili a Firenze a quella di via Palestro a Milano, passando per le bombe esplose a Roma in via Fauro e quella del Velabro e di San Giovanni Laterano: per i giudici che hanno scritto la sentenza di primo grado, si tratta di attentati che “hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”.

È chiaro, stando alla tesi della Procura, che si è trattato di una strategia inquadrata in un preciso contesto politico, l’autunno del 1993, “in cui in Italia – è stata la ricostruzione di Lombardo in aula – dopo moltissimo tempo si corre il rischio di un governo a guida comunista. Perché nell’autunno del 1993 Achille Occhetto vince le elezioni amministrative e inizia a parlare da presidente del Consiglio. È un momento storico decisivo per le sorti di una Nazione che sta vivendo una stagione difficilissima, iniziata in epoca ben antecedente rispetto alla caduta dei blocchi contrapposti nell’autunno del 1989. Quello è un momento storico anche per effetto della forza distruttiva generata dalla vicenda Mani pulite, gestita dalla Procura di Milano, che deflagra su quello che rimane della Democrazia cristiana e del Partito socialista. L’unico interlocutore di sinistra che ha una capacità aggregante è il Pds di Achille Occhetto che ovviamente in quel momento parla come se non avesse avversari. E non ha avversari in realtà. L’avversario verrà formalizzato dopo qualche mese. L’avversario diventerà Forza Italia e abbiamo visto che, per voce unanime delle varie componenti mafiose, il sostegno elettorale doveva essere canalizzato verso quel nuovo movimento politico. Occhetto non si è più ripreso da quella mazzata tant’è vero che ha smesso di fare politica. Erano le elezioni della primavera del 1994 e, visto che sono fatti storici, siamo al primo governo Berlusconi”.

Anche nel processo di secondo grado il nome dell’ex presidente del Consiglio e quello di Forza Italia sono stati ripetuti più volte in aula. Nelle motivazioni della prima sentenza, che è stata confermata oggi dalla Corte d’Assise d’Appello, i giudici avevano fatto espresso riferimento ai “mandanti politici” delle stragi continentali che, su indicazione dei servizi segreti deviati, venivano rivendicate dalla ‘Ndrangheta e da Cosa nostra con la sigla “Falange Armata”.

Ecco perché nella prima sentenza si legge che le “responsabilità degli imputati” Graviano e Filippone “costituiscono soltanto un primo approdo”: dietro agli attentati è “assai probabile” che oltre alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra vi fossero “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre”. Un concetto ribadito pure nel secondo processo dove il pg Lombardo ha fatto riferimento a “interlocutori politici” che “sono stati individuati, indipendentemente dal fatto che possano esserci responsabilità personali ancora da accertare”.

Una frase che fa il paio con quella che il magistrato ha pronunciato nell’ultima udienza di giovedì quando, replicando agli avvocati, ha sottolineato come siamo di fronte a un processo storico che non si è concluso: “Se poi la storia ci fa paura perché diventa particolarmente significativa a livello giudiziario – ha affermato il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – non è un problema mio. Questa è la storia. La difesa Filippone dice: ‘Ma dove sono gli altri? Dove sono gli altri mandanti di questo omicidio?’. Certamente per l’inquadramento che si dà a questi accadimenti ci devono essere mandanti ulteriori rispetto a Rocco Santo Filippone. Ebbene sì. È così e questo mi pare che lo abbiamo sempre sostenuto. Ma abbiamo sostenuto che ci siano mandanti ulteriori rispetto a Rocco Santo Filippone con una veste che Rocco Santo Filippone non aveva, proprio perché, nonostante la sua alta collocazione criminale, risultava già evidente da quello che in atti era presente, ancor prima dell’intercettazione Adornato-Ferraro”.

Il riferimento è all’intercettazione ambientale registrata dai carabinieri nell’ambito dell’inchiesta “Hybris” che, nelle settimane scorse, ha portato all’arresto di 49 persone ritenute vicine alla cosca Piromalli. A parlare, il 17 gennaio 2021 era Francesco Adornato, indagato nell’inchiesta della Dda, che ha rivelato a un altro soggetto, Giuseppe Ferraro appunto, alcuni dettagli circa una riunione avvenuta a Nicotera, presso il resort Sayonara, dove le famiglie mafiose calabresi hanno dato la loro disponibilità a Cosa nostra per partecipare alle stragi.

Ritornando al ragionamento del magistrato, le sue parole in un’aula giudiziaria rischiano di far tremare i polsi non solo alla componente mafiosa del sistema criminale. Per Lombardo, infatti, la posizione dell’esponente della cosca Piromalli “non è paragonabile a chi gli stava sopra. Perché Rocco Santo Filippone è il mandato prossimo che è cosa diversa dal mandato remoto. E quindi, in una stratificazione di mandanti, qui lo processiamo in questo ruolo in attesa di processare gli altri. E quelli che stanno sopra di loro e che li hanno messi là. Abbiamo una stratificazione di mandanti da quello che risulta sufficientemente chiaro”.

Un modo come un altro per dire che l’inchiesta non è finita e che il processo “’Ndrangheta stragista” avrà un seguito: se una sentenza d’appello, non definitiva, stasera ha stabilito che i carabinieri Fava e Garofano, uccisi materialmente da Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, sono morti perché lo hanno voluto Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, dall’altro “sopra di loro” ci sono altri responsabili di un “mandato remoto” che potrebbero essere presto portati alla sbarra.

L’ergastolo inflitto a Graviano e Filippone lascia intendere che la Corte d’Assise d’Appello ha condiviso l’impianto accusatorio della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Per sapere come lo ha condiviso occorrerà aspettare 90 giorni entro i quali verranno depositate le motivazioni della sentenza che poi dovranno essere vagliate dalla Corte di Cassazione dove, senza dubbio, ricorreranno i difensori dei due imputati, gli avvocati Giuseppe Aloisio, Federico Vianelli, Guido Contestabile e Salvatore Staiano.

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