Durante tutto il mese di marzo assistiamo a molteplici eventi di rivendicazione dell’uguaglianza di genere, una lotta emancipatoria che viene da lontano e che ha fatto convulsionare le società eteropatriarcali a diverse latitudini del globo. Una lotta però che è ancora lontana dal suo obiettivo (nonostante i grandi passi in avanti fatti fino ad ora anche se in modo eterogeneo) e nella quale è necessario difendere ogni giorno, con tenacia e determinazione, ogni centimetro conquistato.

I diversi movimenti femministi, uniti nella lotta alla violenza machista ma divisi nelle strategie e in disaccordo su alcuni aspetti dirimenti, avanzano a velocità alterne, educando le società verso una nuova interpretazione delle convenzioni sociali (basate in larga misura sul privilegio dell’uomo bianco eterosessuale) ma scontrandosi con una persistente diffidenza (quando non ostracismo) di un sistema che nasconde le sue distorsioni con tecniche di “marketing sociale” sempre più all’avanguardia.

E allora ci si scandalizza per la trasformazione del linguaggio come manifesto politico di una presenza cosciente del femminile indipendente, autonomo e autodeterminato, ponendo l’accento sul fatto che cambiare una “o” per una “a” distorce la lingua: non si analizza però come questa lingua abbia usato la “a” e la “o” per ghettizzare le donne limitandole a certe professioni (che proprio con “a” non casualmente terminano) riservando quelle che terminano in “o” (non casualmente le più gratificanti economicamente e prestigiose socialmente) all’uso esclusivo dell’universo maschile.

Un non neutralità palese, manifesta, volontariamente creata e che si riflette anche nel Diritto, perché come ha sostenuto Catharine MacKinnon “La legge vede e tratta le donne come gli uomini vedono e trattano le donne”. Un grande ostacolo dunque verso l’ottenimento di quell’uguaglianza reale che si pensava avrebbe emanato naturalmente dopo le grandi battaglie del secolo passato per il riconoscimento delle donne come pari grado rispetto agli uomini, nei diversi ordinamenti giuridici del pianeta (tristemente non in tutti).

Ed eccoci dunque arrivare in Messico, dopo questo denso ma doveroso preambolo, paese dove gli uomini uccidono più di 10 donne al giorno e dove i movimenti femministi affrontano costantemente (pagando quotidianamente con sangue e lacrime) un sistema violento, autoreferenziale, imbevuto di machismo e misoginia. Di fronte a tutto questo la risposta dei movimenti femministi messicani, coscienti che la lotta non è solo di genere ma anche di classe, è stata audace, potente, esemplare. Una risposta organica che nel tempo ha saputo unire mondi e discipline diverse, dall’accademia all’attivismo, dall’arte alla politica, dalle adolescenti alle donne delle terza età. Un corpo organico (che mantiene sfide interne e differenze) che si muove e risponde ai colpi sempre più duri di un sistema patriarcale ferito ma che non vuole cedere. Lo fa in ogni spazio e lo fa soprattutto nella capitale, Città del Messico, vetrina dell’élite economica del paese dove le differenze di genere, classe e etnia sono estremamente visibili, dove l’intersezionalità dell’oppressione trova una chiara e lampante manifestazione di sé.

E allora i collettivi femministi hanno trasformato l’architettura e lo spazio urbano della città in una tela che alfabetizza costantemente chiunque la abiti: concetti femministi, emancipatori, presenti nei punti nevralgici della capitale, in modo fluido però potente e significante. E così Città del Messico si è trasformata in uno spazio urbano territorio di donne in resistenza, un articolato tessuto di sorellanza (sororidad) in espansione che lotta apertamente e quotidianamente contro il sistema che vuole le donne mute, docili, merce. In questa manifestazione permanente, in ogni strada, murales, di fronte ad ogni palazzo governativo e nei luoghi simbolo delle città, sembra di poter sentire nell’aria le strofe della canzone di Vivir Quintana, l’artista messicana che ha creato l’inno di questa nuova tappa dell’emancipazione, Canción sin miedo (Canzone senza paura).

Ma, tornando a ciò che diceva MacKinnon, è importante riconoscere che il Diritto non è neutrale e per questo, sempre in Messico, donne coraggiose hanno affrontato il sistema per creare nuovi avamposti normativi di reale uguaglianza. E’ così che conosciamo Olimpia Coral Melo (1990), politica e attivista contro la violenza digitale e per i diritti delle donne, la cui storia e la cui lotta hanno propiziato la legge che prende il suo nome “Ley Olimpia”, che sanzione la violenza digitale e le molestie online. Oppure Eufrosina Cruz Mendoza (1979), attivista e politica indigena zapoteca (stessa etnia di Benito Juárez, primo presidente indigeno della Americhe), che ha ottenuto una riforma all’articolo 2 della Costituzione, per riconoscere alle donne indigene il diritto al voto attivo e passivo. Come non citare poi Marcela Lagarde (1974), politica, accademica, antropologa e una delle più prominenti rappresentanti del femminismo in America Latina, che ha promosso la tipizzazione del femminicidio in Messico.

Questi sono solo alcuni nomi, ai quali si aggiungono quelli dell’attivista Yolitzin Jaimes (che ha guidato una campagna per denunciare l’impunità e la mancanza di accesso alla giustizia per le vittime di violenza sessuale e tratta di persone) e tanti altri. Nomi conosciuti o meno, che guidano questo nuovo fermento emancipatorio, donne pienamente consapevoli del loro ruolo nella storia e del loro potere, donne che non “chiedono permesso” (e non devono farlo) e che “osano” mettere in discussione il sistema, con un movimento che è già inarrestabile e sarà un grande motore (forse il più grande) della trasformazione del paese, al grido ¡Si tocan a una, respondemos todas! (se toccano una, rispondiamo tutte).

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