di Domenico Tambasco*

E’ legittimo il rifiuto della prestazione lavorativa da parte del dipendente nel caso di inadempimento del datore di lavoro? Questa domanda, ricorrente nella prassi giudiziaria, ha una risposta articolata. Partiamo da un punto fermo costituito dal principio ormai consolidato nella giurisprudenza italiana: il rifiuto della prestazione lavorativa del dipendente a fronte dell’inadempimento del datore di lavoro (definito anche “eccezione di inadempimento”) deve essere proporzionato e conforme a buona fede (tra le ultime Cass. civ., sez. VI, 1 giugno 2018, n. 14138).

In concreto, il rifiuto del lavoratore o della lavoratrice di svolgere la prestazione è proporzionato e conforme a buona fede quando, a seguito di una concreta valutazione delle reciproche condotte, emerga il totale inadempimento del datore di lavoro o comunque una condotta datoriale talmente grave da incidere in modo irrimediabile sulle esigenze vitali del dipendente (v. Cass., sez. lav., 6 settembre 2022, n. 26199).

Quando si può sostenere che il datore di lavoro abbia leso gravemente le primarie esigenze del dipendente o, comunque, abbia totalmente violato i propri obblighi contrattuali? La risposta si trova in molte sentenze, che individuano negli obblighi datoriali “principali” (consistenti nel pagamento della retribuzione, nel versamento dei contributi previdenziali, nel divieto di discriminazione e nei cosiddetti obblighi di protezione dell’integrità psico-fisica del dipendente) quei doveri la cui violazione configura un inadempimento di tale gravità, da legittimare la condotta reattiva del dipendente il quale rifiuti la prestazione richiesta (Corte d’Appello di Roma, sez. lav., 18 agosto 2022, n. 3043).

In particolare, nella casistica giudiziaria:

1. E’ stato dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa della cassiera che si era rifiutata di svolgere le proprie mansioni in presenza di un concreto e potenziale pericolo per la propria incolumità (Cassazione civile, sezione lavoro, 12 gennaio 2023, n. 770);

2. E’ stata accertata la legittimità del rifiuto a presentarsi a lavoro opposto dal dipendente in assenza di una visita medica di idoneità lavorativa da parte dal datore di lavoro, con il conseguente annullamento del licenziamento per assenza ingiustificata (Trib. Milano, sez. lav., 4 luglio 2022, n. 1723, est. Lombardi);

3. E’ stato dichiarato irrilevante sul piano disciplinare il rifiuto allo svolgimento della prestazione lavorativa del dipendente che aveva segnalato l’esistenza di un ambiente di lavoro nocivo, a causa di condizioni igieniche precarie (Corte d’Appello di Torino, sez. lav., 6 aprile 2022, n. 91).

In tutti questi casi assume rilievo centrale la violazione da parte del datore di lavoro dell’art. 2087 del codice civile, norma fulcro del sistema italiano di tutela della sicurezza sul lavoro. Ne deriva che “con specifico riferimento alla violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. è considerato legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore, posto che è in gioco il diritto alla salute di rilievo costituzionale” (Cassazione civile, sezione lavoro, 12 gennaio 2023, n. 770, cit.).

Il diritto all’autotutela della propria salute attraverso il rifiuto della prestazione lavorativa porta con sé, evidentemente, anche il diritto al percepimento della retribuzione. Una precisazione è d’obbligo: non sempre il comportamento reattivo del dipendente viene protetto dall’ordinamento. E’ il caso del demansionamento che dalla giurisprudenza prevalente non viene considerato come grave inadempimento datoriale (sebbene illegittimo ai sensi dell’art. 2103 del codice civile), alla luce del fatto che comunque il datore di lavoro offre l’adempimento di tutti gli altri obblighi derivanti dal contratto, in primis quello retributivo (Cass., sez. lav., 6 settembre 2022, n. 26199).

Analogo discorso vale per il trasferimento illegittimo che, secondo la Corte di Cassazione, non giustifica automaticamente il rifiuto del lavoratore a svolgere la prestazione lavorativa: anche in questa ipotesi, infatti, si deve valutare caso per caso la conformità a buona fede e correttezza della condotta del dipendente (Cass., sez. lav., 10 febbraio 2022, n. 4404). In conclusione, si può affermare come il diritto al rifiuto della prestazione lavorativa da parte del dipendente sia un importante strumento di autotutela che rispecchia una recente tendenza dell’ordinamento italiano, volta a garantire l’effettività dei diritti anche attraverso rimedi extragiudiziali.

*Avvocato giuslavorista, da anni si occupa di conflittualità lavorativa anche come redattore di diversi ddl in materia presentati nella scorsa legislatura

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