Sono trascorsi due anni dall’agguato mortale che costò la vita all’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista del World Food Programme Mustapha Milambo Baguma, caduti in un’imboscata sulla route nationale 2 che da Goma porta verso Rutshuru, nella instabile provincia del Nord Kivu. Tre diverse indagini erano state aperte per comprendere dinamica dei fatti e responsabilità dell’accaduto: una interna alle Nazioni Unite (poiché i tre viaggiavano su un convoglio del WFP), una della giustizia militare congolese e una della Procura di Roma, competente per i reati commessi all’estero. Quest’ultima ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo nei confronti di Rocco Leone, vicecapo missione del WFP in RDC, e Mansour Rwagaza Luguru, addetto alla sicurezza WFP per il Nord Kivu. Una richiesta sulla quale il gup, come annunciato in queste ore, prenderà una decisione il 25 maggio prossimo. Mentre in Italia deve ancora prendere il via il processo, è invece alle battute finali quello in corso a Kinshasa, la capitale della RDC. Un procedimento che, nel suo svolgimento, ha fatto emergere più di una perplessità.

Ripercorrendo le tappe e gli accadimenti principali di questa vicenda che, come talvolta ricorda il padre dell’ambasciatore, Salvatore Attanasio, in altri tempi sarebbe stata fondata ragione per scatenare una guerra, si nota come oggi questa fatichi a trovare spazio sui giornali, non ricevendo la necessaria attenzione delle istituzioni italiane ed europee. Tappe che ci riportano indietro di due anni, fino a quel 22 febbraio 2021. I video amatoriali dell’agguato, circolanti sui social fin da subito, mostrarono una realtà parzialmente diversa da quella che veniva raccontata: nessuna foresta, al massimo erba alta e arbusti, una strada con parecchio transito di pedoni, bici, moto, ma soprattutto una voce che gridava che gli assalitori si stavano cambiando le divise per indossare “quelle dei poliziotti”.

Nei primi giorni una missione dei Ros era partita alla volta di Kinshasa, dove aveva potuto interrogare le persone coinvolte o a conoscenza dei fatti e acquisire materiale utile in ambasciata. A meno di un mese dall’agguato, il WFP già rendeva noto di aver chiuso le indagini interne e di aver inviato il dossier alle autorità italiane. Il 10 marzo il Parlamento europeo prendeva posizione con una risoluzione in cui condannava “con la più grande fermezza” l’accaduto e chiedeva “un’inchiesta approfondita, indipendente e trasparente sulle circostanze attorno a questo omicidio”. Da allora, però, null’altro si è più mosso a livello comunitario. Come se non fosse stato ucciso l’ambasciatore di uno dei paesi fondatori dell’Ue.

In quegli stessi giorni, una fonte interna locale ben informata, dietro garanzia dell’anonimato, rivelava a ilfattoquotidiano.it alcuni particolari: la zona in cui è avvenuto l’agguato non registra presenza di gruppi armati, che si trovano a una certa distanza, nascosti dentro il parco dei Virunga, ma vi opera l’esercito regolare, le Fardc, che hanno diverse postazioni in zona.

Il 22 maggio 2021, a margine di un incontro ufficiale a Parigi, il presidente congolese Felix Tshisekedi annunciava degli arresti, notizia ripresa da tutti i media salvo poi scoprire che non di arresti, ma di fermi, si trattava e che erano avvenuti tre mesi prima, nell’immediatezza dei fatti. Anche qui, le roboanti dichiarazioni di collaborazione stridono con i mancati atti concreti: mesi e mesi di attesa per concedere ai Ros i permessi per recarsi a Kinshasa, oltre ai tabulati telefonici continuamente promessi e non inviati.

Il 9 giugno 2021 giunge la notizia ufficiale del primo indagato dalla procura di Roma, Mansour Rwagaza: le modalità con cui ciò avviene (Rwagaza è sentito a Roma dai magistrati come persona informata dei fatti e a metà deposizione la sua posizione viene mutata in quella di indagato) scatenano le proteste e la conseguente chiusura totale del WFP che da quel momento cesserà la già pur minima collaborazione con le autorità italiane, opponendo sempre la pretesa immunità diplomatica dei suoi funzionari. Immunità contestata da piazzale Clodio.

Ma è solo il 9 gennaio 2022, dopo mesi di sostanziale inattività sui vari fronti, che l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio invia una lettera al direttore del WFP sollecitando “una rapida risposta alla richiesta di elementi utili per le attività investigative in corso”, che era stata “indirizzata al PAM dalla nostra Rappresentanza Permanente presso le Nazioni Unite a Roma lo scorso 16 dicembre”. Questa rimane l’unica presa di posizione ufficiale del governo italiano nei confronti del WFP che continua a trincerarsi dietro l’immunità diplomatica e che nel frattempo aveva trasferito tutti i funzionari coinvolti a vario titolo nella vicenda, compresi quelli che si trovavano nel convoglio.

Nove giorni dopo quella lettera, giungeva dal Congo la notizia dell’arresto dei presunti assassini dei nostri connazionali: immagini che hanno fatto il giro del mondo, con sei uomini ammanettati e seduti sul prato, davanti alle telecamere. Quel giorno si disse che due di loro erano coinvolti nell’agguato a trois antennes, aggiungendo che il capo della banda, allora noto solo come Aspirant, che poi si è scoperto chiamarsi Amos Mutaka Kiduhaye, era in fuga. Subito la Procura di Roma avviava una nuova rogatoria per poter acquisire i verbali e poter inviare i Ros a interrogare sul posto i sospettati, nonostante fossero ancora pendenti le due richieste di rogatoria di marzo e giugno 2021.

Poche settimane dopo, nel febbraio 2022, il pm Sergio Colaiocco chiudeva le indagini: secondo le conclusioni della Procura, Attanasio, Iacovacci e Milambo sarebbero stati uccisi da un gruppo di banditi che chiedeva 50mila dollari. Ed è proprio sulla ricostruzione di Rwagaza e degli altri sopravvissuti all’agguato che si basano le conclusioni dei magistrati romani. Anche a causa di difficoltà oggettive, mai nessun testimone esterno è stato sentito. Eppure ce n’erano diversi (come mostrano anche i video amatoriali) e di alcuni si conoscono anche le generalità che Ilfattoquotidiano.it, per preservarne l’incolumità, ha deciso di non divulgare.

Ma molte restano le contraddizioni e le lacune della versione ufficiale. I presunti rapitori, che secondo i primi rilevamenti delle Fardc si trovavano appostati sul luogo dell’agguato già tre giorni prima, non potevano sapere del passaggio del convoglio senza qualche fonte interna informata sui programmi dell’ambasciatore. Inoltre, come già scritto un anno fa da Ilfattoquotidiano.it, la popolazione locale si era rivolta ai guardiaparco che stavano lavorando a dei tralicci dell’alta tensione lì vicino prevedendo accadimenti che quel giorno non avrebbero consentito loro di svolgere il loro compito.

Altro tassello stonato in questo puzzle è il comportamento di Rocco Leone che nelle ore e nei giorni seguenti all’imboscata non era ricoverato in stato di shock, come veniva inizialmente detto, ma nella sua camera d’hotel, come confermano le intercettazioni telefoniche agli atti e anche fonti confidenziali de Ilfattoquotidiano.it. Addirittura, subito dopo il suo ritorno a Goma quel giorno, si sarebbe recato al ristorante “Mediterraneo” insieme al console onorario Gianni Giusti e al proprietario del locale stesso, Michele Macrì. Lo stesso luogo dove la sera prima si era tenuta una cena a cui l’ambasciatore Attanasio aveva invitato tutti gli italiani residenti nella zona.

Il 2 marzo si viene a sapere che il 23 febbraio c’erano stati a Goma quattro nuovi arresti di presunti criminali, uno dei quali, André Murwanashaka, avrebbe ammesso di aver preso parte all’imboscata. L’11 aprile 2022, Ilfattoquotidiano.it svela di aver raccolto quattro nuove testimonianze locali, tutte convergenti, che prospetterebbero un complotto di alcuni elementi delle Forze Armate della RDC (Fardc) che coinvolge membri dell’intelligence, poliziotti e civili.

Passano altri mesi, durante i quali prende possesso della sede diplomatica di Kinshasa il nuovo ambasciatore Alberto Petrangeli: anche grazie al suo lavoro, lo scorso luglio, a quasi un anno e mezzo dai fatti, i Ros sono finalmente potuti volare in RDC, dove avrebbero ottenuto copia degli atti di indagine raccolti dalla magistratura congolese e incontrare e interrogare i cinque arrestati, nonché acquisire tabulati telefonici e 40 video coi sopralluoghi effettuati dalle autorità congolesi nella zona dell’imboscata nell’immediatezza dei fatti, oltre a quelli degli arrestati. I Ros hanno potuto infine recuperare il telefono satellitare di Iacovacci trovato sul luogo dell’agguato insieme al cellulare e a due schede telefoniche appartenenti a uno dei cinque arrestati. Stando alle deposizioni raccolte in loco, a differenza di quanto annunciato dagli inquirenti congolesi nel gennaio 2022, si affermava ora che a sparare materialmente sarebbe stato non Aspirant, ma Marco Prince Nshimimana, il quale però ha sempre negato risolutamente, pur ammettendo, solo nel primo interrogatorio, la propria partecipazione all’agguato.

Va notato che, per la persistente insicurezza, in questi due anni i Ros non si sono mai recati a Goma, non hanno mai potuto vedere il luogo dell’agguato né visionare le due auto coinvolte. L’insicurezza, attualmente a livelli altissimi dopo lo scoppio di nuove ostilità tra forze governativi e gruppi ribelli, era invece a livelli accettabili fino all’autunno del 2021. Ricordiamo inoltre che, nonostante le oggettive difficoltà, missionari, cooperanti e volontari italiani e di altre nazionalità continuano a vivere e a operare a Goma.

Intanto, il 12 ottobre 2022 ha preso il via il processo a Kinshasa e alla maggior parte delle udienze ha partecipato anche l’ambasciatore Alberto Petrangeli. Durante le udienze, tutti gli imputati, tranne Aspirant che risulta ancora latitante, hanno rifiutato gli addebiti e ribadito che le loro confessioni sono state estorte sotto tortura. Del resto, come anticipato dal Fatto Quotidiano, nel primo interrogatorio non erano presenti i legali difensivi, particolare che in Italia renderebbe inutilizzabili le loro confessioni.

A complicare ulteriormente la situazione, le dichiarazioni di Bahati Kiboko, che asserisce di essere stato in carcere a Goma fino al pomeriggio del 22 febbraio 2021 e quindi di non poter essere stato coinvolto nei fatti. Secondo l’ufficio del procuratore militare, invece, la sua scarcerazione sarebbe avvenuta il 23 gennaio 2021. Come spiegato da fonti della Farnesina a Ilfattoquotidiano.it, “è stato posto un quesito formale al Tribunale di Goma che ha trasmesso una relazione scritta sulla base dell’esame dei registri del carcere di Goma. In udienza ne è stata data lettura”. Una formula inusuale, dato che sarebbe stato più semplice, e certamente più esaustivo, presentare il provvedimento di scarcerazione originale di Kiboko controfirmato dall’imputato.

E così, fra lacune, sciatterie, lungaggini burocratiche, probabili confessioni estorte con la forza e possibili depistaggi, il 1 marzo si terrà l’ultima udienza del processo congolese, alla quale seguirà la sentenza del tribunale militare. Meno di tre mesi dopo, si deciderà sul processo romano a carico di Leone e Rwagaza. E qui ancora non è risolto il nodo centrale: i due funzionari vedranno riconosciuta l’immunità invocata dal WFP?

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