L’inchiesta

Nuovi misteri sull’uccisione di Luca Attanasio: “L’ambasciatore fu vittima di un complotto dei militari congolesi”

Forze armate e servizi segreti - Smentito il tentativo di sequestro finito male. L’ambasciatore italiano ucciso nel 2021 con un carabiniere e l’autista. Quattro testimoni sentiti dal “Fatto” riscrivono la storia dell’agguato

Di Giusy Baioni e Gianni Rosini Icons/ascolta
11 Aprile 2022

Un complotto delle alte sfere delle Forze Armate della Repubblica democratica del Congo (Fardc) che coinvolge membri dell’intelligence, poliziotti e civili. È il quadro che emerge da quattro testimonianze raccolte dal Fatto Quotidiano tra personaggi molto vicini alle indagini o direttamente coinvolti nel piano che ha portato, il 22 febbraio 2021, all’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista del Programma alimentare mondiale (Pam) Mustapha Milambo, sulla strada tra Goma e Rutshuru, nella regione del Nord Kivu. Una delle quattro testimonianze è stata raccolta anche dai pm di Roma, che hanno chiuso le indagini iscrivendo nel registro degli indagati, con le accuse di omicidio colposo e omesse cautele, due membri del Pam sopravvissuti all’agguato, Rocco Leone e Mansour Rwagaza. Una nuova ricostruzione che, se confermata, dimostrerebbe il pesante coinvolgimento delle autorità di Kinshasa (rimettendo in discussione la versione fino ad oggi più accreditata del tentativo di sequestro a scopo d’estorsione) e spiegherebbe anche la scarsa collaborazione da parte delle autorità congolesi denunciata dagli stessi inquirenti italiani.

La testimonianza più dettagliata, a disposizione anche dei pm, è quella di una delle persone vicine alle indagini locali. Per garantire la sua sicurezza, non è possibile fornire particolari sull’identità: il suo racconto parla di un’inchiesta congolese completamente arenata e soprattutto di pressioni e intralci messi in atto dai vertici delle Forze Armate per nascondere ogni responsabilità. C’è un nome che la fonte indica come il deus ex machina di questa strategia e che ritorna anche nei racconti degli altri tre testimoni, tutti ascoltati separatamente: è il colonnello Jean Claude Rusimbi. Secondo la testimonianza di un abitante del villaggio di Kibumba, nel gruppo di fuoco che ha sequestrato i membri del convoglio Pam erano presenti soldati congolesi collegati a Rusimbi ed elementi venuti dal Rwanda, già attivi in altre operazioni simili.

Il colonnello, infatti, viene già citato in un rapporto del Gruppo di Esperti Onu sulla Rd Congo del dicembre 2020, in cui è documentata la sua presenza in una riunione con 13 membri delle forze armate rwandesi, ed è identificato come elemento di contatto fra l’esercito congolese e l’unità delle forze armate di Kigali incaricata delle operazioni oltre confine. A Rusimbi, secondo i testimoni, è anche stato chiesto di comparire di fronte ai Procuratori locali, ma grazie alle alla Commissione d’inchiesta inviata da Kinshasa, lui e altri membri delle Fardc e dell’intelligence convocati, o addirittura messi in stato di fermo dopo l’agguato, sono tornati in libertà senza l’obbligo di testimoniare.

La Commissione era guidata dal generale di brigata Franck Molisho Borneza e dal capo della Procura di Goma, colonnello Ndaka, indicato come soggetto che avrà un ruolo attivo nell’insabbiamento delle indagini. Sui metodi utilizzati, però, non è possibile rivelare altri particolari per garantire la protezione delle fonti sentite.

Il nome di Rusimbi, come detto, compare anche nel racconto di un civile coinvolto nell’agguato con un ruolo marginale. Racconta di esser stato ingaggiato da un membro dell’operazione Sokola 2 per il disarmo dei ribelli rwandesi nell’area, all’interno del piano già preparato per l’imboscata al convoglio. E poi tira in ballo il nome di Rusimbi, indicandolo come uno dei “pesci grossi” del piano.

Tra gli arrestati nelle ore seguenti all’attacco ci sono anche il Tenente Jacques Mambo, del- l’intelligence militare (sospettato per la sottrazione di materiale dai veicoli subito dopo l’agguato) e Faustin Kanyatsi, agente dell’intelligence a Kibumba. Tra gli oggetti scomparsi anche la valigetta dell’ambasciatore, il cellulare di Iacovacci e quello di Attanasio, poi ritrovato. Proprio sul ruolo di Kanyatsi emergono ulteriori dubbi: era lui l’uomo dell’intelligence nel villaggio di Kibumba, ma secondo le testimonianze locali e i rilievi della scientifica, gli assalitori si trovavano accampati già tre giorni prima. La popolazione ne era al corrente, tanto che alcuni di loro, la mattina del 22 febbraio, erano andati ad avvisare i guardaparco. In molti, quindi, sapevano che qualcosa stava per accadere, ma non il responsabile dei servizi segreti nel piccolo villaggio. E dalle ricostruzioni emerge anche che poco prima, dallo stesso tratto di strada, era circolato un altro convoglio con a bordo europei: un obiettivo di primo livello per un gruppo armato che volesse compiere un sequestro a scopo d’estorsione. Ma la spedizione è passata senza problemi sulla strada per Rutshuru.

La fonte civile coinvolta nei fatti fa anche il nome del Tenente Colonnello Museveni, presente sul luogo dell’agguato, indicandolo come l’altro “pesce grosso”. Anche lui riappare nella testimonianza rilasciata dalla fonte vicina alle indagini, secondo cui fu proprio Museveni a dare l’ordine ai militari di abbandonare, un mese prima, il posto di blocco nell’area dell’agguato per impiegarli in un altro settore, nonostante avessero il compito di garantire la sicurezza dell’area di Kibumba, oggetto di diversi attacchi simili in passato e sulla quale era scattata un’allerta terrorismo.

Un ruolo interessante è quello svolto proprio dalla fonte civile ingaggiata per una funzione secondaria nell’agguato. In una conversazione preliminare ha rivelato i nomi di altre persone coinvolte con funzioni di manovalanza: oltre a Museveni e Rusimbi, un agente locale dei servizi segreti e un religioso che avrebbe nascosto Rocco Leone nella sua abitazione mentre gli aggressori portavano nella boscaglia Attanasio, Iacovacci e gli altri sequestrati. L’uomo era stato fermato ma, sempre secondo questo racconto, avrebbe corrotto gli agenti per essere rilasciato.

Nel giorno fissato per l’intervista, però, la fonte non si è presentata e ha negato altre testimonianze. Secondo gli altri due testimoni l’uomo aveva riferito al commissario superiore della polizia nazionale congolese, Nsenga Sehugo Masengo, alias Panther, che lo avrebbe minacciato di arresto se avesse continuato a parlare. Non abbiamo potuto verificare la versione offerta dalle due fonti. Poche ore dopo, comunque, sarà proprio Masengo a ufficializzare l’arresto di 4 persone, una delle quali sarebbe coinvolta, sosteneva, nell’imboscata del 22 febbraio 2021.

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