Ormai va componendosi definitivamente il puzzle dei referenti sociali privilegiati dal governo Meloni; la base da blandire con provvedimenti legislativi e politiche ad hoc.

Una prima traccia ce la forniva Antonio Padellaro su il Fatto cartaceo della scorsa settimana (25 gennaio), maneggiando il bandolo maleodorante che unifica una serie di provvedimenti (depenalizzazione dell’evasione fiscale, rottamazione delle pendenze esattoriali, via la Spazzacorrotti, taglio alle intercettazioni, abolizione della Severino con rieleggibilità dei condannati) direttamente a vantaggio di una tipologia ben precisa: la neo-borghesia affaristica. Dunque, un orientamento di stampo thatcheriano, secondo la descrizione della “Lady di ferro” tratteggiata dallo storico del Novecento Tony Judt: “una parvenu della lower middle-class con un’inclinazione per gli uomini d’affari nouveau riche”.

Ma a fianco degli arricchimenti dalla dubbia origine e di spudorata ostentatività, tipici di questi anni, c’è il secondo target – tanto per Margaret Thatcher come per Giorgia Meloni – che anche in questo caso è Judt a segnalarci: “riduzione delle tasse, libero mercato, privatizzazione di imprese e servizi, patriottismo, individualismo”. Istanze riconducibili a un altro conservatorismo, che allignano nel modo piccolo dei bottegai e dei padroncini; nelle loro nevrosi ansiogene di mantenere un qualche distacco dall’odiata moltitudine degli ultimi; cui si vuole togliere persino il modesto puntello del reddito di cittadinanza per impedirgli di galleggiare.

Ecco – però – apparire, a fianco dei furbetti/furbacchioni insofferenti delle regole e degli impauriti alla ricerca di protezione e rassicuramento, un terzo soggetto, di ben maggiore peso: i signori dell’ordine costituito e i loro fiduciari (politici e maîtres à penser) preposti a giustificare il vigente sistema delle disuguaglianze. Potremmo chiamarli i cittadini del Mondo Davos; con la loro post-ideologia, che mentre attesta la fine di tutte le ideologie promuovendo il pensiero unico semplificatorio fornisce alle due signore la corazza di convinzioni con cui promuovere le rispettive ascese politiche.

La figlia del droghiere di Grantham, nella marginale contea del Lincolnshire, e la ragazza venuta dal quartiere periferico della Garbatella; la prima eleggendo a propria guida spirituale un simil-filosofo austriaco – Friedrich Hayek – e l’altra cercando la pietra filosofale del successo negli States; nell’America della scuola di Chicago, a lezione dall’economista hayekiano Milton Friedman: il profitto è una forma di bene sociale e senza di esso una società libera non può funzionare; negli ultimi duecento anni grazie al libero mercato tutti gli indicatori di benessere si sono impennati; il capitalismo garantisce il dinamismo, il socialismo assicura dignità ma non mantiene quanto promesso; compito del governo è quello di garantire lo stato di diritto e poi levarsi di torno. Insomma, il sogno americano spiegato al popolo e riassunto nella formula friedmaniana “la responsabilità sociale dell’impresa è la massimizzazione del profitto”. Sempre la stessa solfa da oltre mezzo secolo. Ma mentre la dama arrivata dall’Inghilterra profonda non aveva avuto modo di verificare gli effetti di tali corbellerie dottrinarie, la nostra borgatara dalla voce rauca avrebbe – volendo – modo di constatare il disastro prodotto – tanto alle persone come all’ambiente – da un turbocapitalismo senza regole, che elegge l’interesse avido a proprio criterio-guida.

Ed è stupefacente giungere a una tale valutazione, considerando che la premier veniva annunciata come la portabandiera di una destra sociale propugnatrice di tutt’altre tesi: ostilità e disprezzo nei confronti delle cricche pluto-masso-giudaiche (il “demo” resta da valutare), propensione al nazional-popolare (l’Italia descritta come “Grande Proletaria”), valorizzazione del ruolo pubblico in economia (l’IRI non è vanto del Fascismo?), malevolenza verso l’anglicizzazione del mondo (il “Dio stramaledica gli inglesi” è mood del Ventennio o no?). Un armamentario arrugginito di cui non si sente la necessità ma che la premier accantona per qualcosa di ben più pericoloso: la determinazione a farsi cooptare dall’establishment politico (la Casta), la sovresposizione ai richiami plutocratici delle diseguaglianze, dello sfruttamento e della demofobia (leggi l’odio verso gli ultimi). Un po’ Mario Draghi, un po’ Flavio Briatore.

Per cui, la nostra puffetta mannara Giorgia on my mind ci sta cantando una vecchia canzone che suscita soltanto ricordi tristissimi di impoverimenti e disunione civica.

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