Ma che vita di mer*a! Questa esclamazione viene spontanea quando, dopo la cattura, viene analizzata l’esistenza che hanno condotto questi grandi latitanti di mafia. I cosiddetti capi dei capi non vivevano in sontuose ville, circondati da stuoli di affettuosi familiari e ossequiose guardie del corpo, come la saga de “Il padrino” aveva prospettato, ma nel caso di Riina e Provenzano in tuguri e, per quanto riguarda Messina Denaro, in anonimi appartamenti.

Non facevano una vita con feste, vacanze su barche di lusso, ma più modestamente dovevano accontentarsi di qualche cena costosa. Insomma tutto quello che rappresenta il desiderio di un ipotetico criminale – e cioè denaro facile per vivere “alla grande” – era loro precluso. Forse imperava il senso del potere che deriva dal poter ordinare l’uccisione di qualcuno e il “rispetto pauroso” delle altre persone, ma questo basta?

Un giovane picciotto, tralasciando ovviamente le considerazioni etiche e morali, prima di intraprendere questa carriera dovrebbe valutare attentamente i rischi di incappare in una vita veramente misera sul piano affettivo, relazionale e addirittura povera sul piano della fruizione dei comfort.

Da un punto di vista psicologico occorre sfatare il mito mafioso che molti film o saghe di successo hanno consegnato all’immaginario collettivo, per far emergere la cruda realtà di un’esistenza ai margini in cui, oltre ai rischi connessi all’attività criminale, esistono poche possibilità di fare la bella vita. Insistere sulla riprovazione del gesto criminale è certamente utile, ma è molto più efficace la dimostrazione che il crimine non paga in termini di benessere. Chi entra nella mafia, presumibilmente, lo fa perché appartenente a famiglie in cui ci si tramanda l’asservimento a questa organizzazione criminale, ma anche perché presume di trovarvi un modo facile per fare i soldi e poter agguantare i suoi sogni. Ecco, appunto… occorre che i mezzi di comunicazione di massa distruggano simbolicamente il sogno di diventare capomafia.

Far conoscere lo squallore di un’esistenza in cui non puoi frequentare e amare liberamente i tuoi figli, ma sei circondato da persone che ti seguono solo per paura o interesse e provi ogni giorno il timore di poter essere ucciso o scoperto e catturato…

La lotta alla mafia passa anche attraverso la distruzione dell’immagine vincente del criminale che, come primula rossa, riesce a imporre il potere su un territorio per sentirsi circondato da “rispetto” e ossequiosa gratitudine. Il desiderio nei giovani sgorga dal bisogno di approvazione del gruppo familiare e sociale di appartenenza, temperato e mischiato con la voglia di affermare se stessi nel mondo per poterlo cambiare.

Il mutamento della valutazione sociale della mafia mi pare stia avvenendo e presumo che, lentamente, anche nelle famiglie più affiliate ai clan si faccia strada una speranza per il futuro delle nuove generazioni. Lavorare come mezzi di informazione sull’immagine perdente e non vincente dei boss è necessario per fornire una spinta al giovane che ora si trova a vivere in famiglie colluse con la mafia ad affrancarsi dal destino della propria progenie e dal contesto in cui vive. Troppo spesso esistono interessi nascosti che spingono a dipingere il mafioso come forte, intellettualmente preparato e vincente sul piano economico. Questa descrizione serve ad attirare i fruitori di film e serie televisive, oltre ad alimentare finanziamenti e carriere per contrastare il mostro mafia.

Far emergere la realtà in cui il mafioso opera in contesti di miseria umana, intellettuale e sentimentale a mio avviso serve a sconfiggere nell’animo di un giovane il desiderio di emularlo.

Qualcuno, appartenente alla schiera dei dietrologi, dirà che questi capi mafiosi sono solo la punta dell’iceberg. Dietro troviamo i colletti bianchi, i pupari e coloro che a livello politico e industriale muovono enormi interessi. Questo livello di malaffare esiste in ogni paese del mondo. Si tratta di una criminalità più o meno organizzata che deve essere contrastata con tutti i mezzi, ma che non possiamo definire solo mafiosa, in quanto l’avidità umana porta in tutto il mondo gruppi malavitosi a cercare di lucrare, sottraendosi alla legge. La peculiarità della mafia siciliana e italiana era ed è costituita da un contesto sociale e familiare per cui un giovane che vi nasce è destinato a questa vita criminale. Sradicare questa peculiarità di appartenenza sarebbe già un grande passo avanti.

Poi, certamente, la lotta alla criminalità non si esaurirà, in quanto sempre nuovi adepti cercheranno vie facili per far denaro contro la legge. Ma almeno avremo sconfitto l’ineludibilità del ruolo criminale. Per ineludibilità del ruolo criminale intendo il fatto che un bambino che oggi nasce in certe famiglie mafiose ha una strada segnata, cui difficilmente può sottrarsi, sia per modello educativo che per appartenenza atavica a un gruppo sociale. Lavoriamo perché questo ragazzo sia libero di fare una scelta. Poi certamente sappiamo che su milioni di individui qualcuno che cercherà una via facile per affermarsi, anche criminalmente, ci sarà sempre.

In sintesi auspico che, anche attraverso la descrizione del capomafia come un perdente, si tolga al giovane facente parte delle famiglie colluse con la mafia l’ineludibilità del suo destino per permettergli una scelta.

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