Forse è prematuro parlare di “inizio delle ostilità” fra colossi dell’auto. Tuttavia, lo scambio a distanza fra Toyota e Polestar potrebbe essere solo il primo di una lunga serie. Malcelando oltretutto i differenti interessi industriali di Giappone, che punta a una transizione dell’automotive più graduale e inclusiva di più tecnologie (la stessa auspicata da diverse multinazionali dell’automobile), e Cina, che spinge fortissimo sull’auto elettrica per tre motivi: controlla la maggior parte delle risorse minerarie che servono per fabbricare batterie, produce la maggior parte delle stesse ed è fortemente competitiva nella realizzazione di questa categoria di veicoli. Ma andiamo con ordine.

Ormai sono abbastanza noti gli scetticismi di Akio Toyoda, gran capo della Toyota, sulla mobilità elettrica. Nei giorni scorsi il presidente del gigante nipponico delle quattro ruote li ha ribaditi nel corso di un incontro con la rete dei concessionari statunitensi: “Proprio come le auto completamente autonome, che tutti noi pensavamo di guidare ormai da diverso tempo, i veicoli elettrici impiegheranno più tempo per diventare mainstream rispetto a quanto i media vorrebbero farci credere”. Parole che arrivano a pochi giorni di distanza da dichiarazioni pubbliche analoghe: “Le persone coinvolte nell’industria automobilistica sono in gran parte una maggioranza silenziosa. Questa maggioranza silenziosa si sta chiedendo se i veicoli elettrici vadano veramente bene come unica opzione, ma pensa che sia solo una moda e quindi non può alzare la voce”.

Toyota crede in un approccio tecnologicamente neutrale al tema della decarbonizzazione della mobilità, che tenga in considerazione tutte le possibili alternative tecniche per rendere più green le quattro ruote. Quindi, non solo auto elettriche a batteria, ma anche auto a idrogeno, ibride e alimentate a carburanti sintetici. Tutte tecnologie in cui il costruttore sta investendo, conscio che i tempi di elettrificazione delle varie aree geografiche non saranno affatto omogenei. “Poiché la risposta giusta non è ancora chiara, non dovremmo limitarci a una sola opzione”, afferma Toyoda, convinto che alcuni target politici siano irraggiungibili.

A cominciare proprio da quello americano che vedrebbe le elettriche al 50% delle vendite totali già al 2030. Un obiettivo che, secondo Toyoda, rischia di scontrarsi con le carenze di litio e nichel per la fabbricazione delle batterie, con i ritardi dell’infrastruttura di ricarica e col rallentamento della domanda delle vetture elettriche, dettato dai loro costi e dalla frenata dell’economia globale.

In soldoni, per Toyota “il nemico è il carbonio, non una particolare propulsione”. “Spetta ai clienti decidere”, dice Toyoda, che intende giocare la partita della decarbonizzazione “con tutte le carte nel mazzo”, offrendo “un’ampia gamma di veicoli per tutti i tipi di richieste.

Concetti, tuttavia, non condivisi da Fredricka Klaren, Responsabile Sostenibilità di Polestar, brand di auto elettriche nato da una costola della Volvo, sotto il controllo dei cinesi di Gruppo Geely. Interrogata sulle posizioni di Toyota e sulla fattibilità delle stesse, la Klaren ha risposto seccamente: “Non è possibile. Non possiamo continuare a utilizzare combustibili fossili”. La manager ritiene che l’unica strada perseguibile sia quella della tecnologia elettrica a batteria: “La nostra strategia climatica si basa sull’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). In Polestar vogliamo essere neutrali dal punto di vista climatico entro il 2040 e dimezzare le emissioni entro il 2030. Non è solo quel che possiamo fare ma, soprattutto, è ciò che gli scienziati del clima ci dicono di fare. Abbiamo solo sette anni prima di raggiungere 1,5 gradi di riscaldamento globale. Qualsiasi cosa dopo il 2030, non ci interessa”.

La tecnologia ibrida, tanto cara a Toyota? Per la Klaren è insufficiente: “Per me stai ancora mettendo benzina nell’auto, quindi è sbagliato concentrarti su questa tecnologia. Sappiamo che non c’è posto per i veicoli non elettrici su larga scala dopo il 2030 in questo scenario. Ma i costruttori sono bloccati nei loro piani aziendali. Pianificano una ‘transizione’ e lo capisco. Ma è la tempistica ad essere sbagliata, non in linea con quanto asserito dagli scienziati: bisogna stracciare quei piani aziendali e crearne di nuovi”.

Ma esistono alternative a posizioni così antitetiche? In realtà, ci sarebbero concrete possibilità offerte dai carburanti sintetici, in cui credono diversi costruttori, a cominciare dalla Porsche. L’azienda tedesca – pur impegnata in una massiccia elettrificazione della sua gamma – ha già avviato la produzione del suo “e fuel” presso l’impianto Haru Oni di Punta Arenas, in Cile. Nell’operazione sono coinvolti multinazionali come Siemens, Enel e HIF Global. Il polo cileno può sintetizzare l’idrogeno verde da un processo di elettrolisi dell’acqua, sfruttando energia ricavata da un impianto eolico. L’idrogeno verde prodotto viene poi miscelato con anidride carbonica atmosferica per formare metanolo, precursore della benzina carbon neutral, che, secondo Porsche, ha già un prezzo inferiore ai 2 dollari al litro.

“La Porsche è impegnata in un percorso a doppia e, ovvero e-mobility, cioè mobilità elettrica, ed e-fuel come tecnologia complementare. L’utilizzo degli e-fuel riduce le emissioni di anidride carbonica”, ha recentemente spiegato il responsabile acquisti della marca tedesca, Barbara Frenkel. Ecco perché “la produzione industriale di combustibili sintetici dovrebbe continuare a essere sostenuta in tutto il mondo”. Parole a cui fanno eco quelle di Michael Steiner, responsabile Ricerca e Sviluppo: “Il potenziale degli e-fuel è enorme. Attualmente ci sono più di 1,3 miliardi di veicoli con motori a combustione interna in tutto il mondo. Molti di questi rimarranno sulle strade per i decenni a venire e gli e-fuel offrono ai loro proprietari un’alternativa quasi a emissioni zero”. Si parla, infatti, di una riduzione della CO2 fino al 90% rispetto alla benzina da fonti fossili.

E non è solo Porsche a credere in questa possibilità tecnica: infatti, ad aprile del 2022 la coreana Hyundai Motor Group ha annunciato una partnership con Saudi Arabian Oil Company (Aramco) e King Abdullah University of Science and Technology (KAUST), per lo sviluppo congiunto di un carburante avanzato per motori termici ad alta efficienza. Anche in questo caso si parte dalla sintesi di idrogeno verde – prodotto dall’elettrolisi dell’acqua usando l’elettricità rinnovabile – e dall’anidride carbonica atmosferica: così alimentato, un veicolo termico, secondo Hyundai, può ridurre il suo impatto carbonico dell’80% nell’intero ciclo di vita, diventando ecosostenibile tanto quanto uno elettrico.

Al di là delle varie scelte e posizioni sulla transizione energetica, esiste tuttavia un paradosso non trascurabile: mentre la Cina – da cui proviene Geely, proprietaria di Polestar – esercita la sua attività di lobby per promuovere l’auto elettrica nel resto del mondo, al fine di rilanciare la domanda sul mercato automobilistico interno (che è il più grande del pianeta e il primo per immatricolazioni di vetture elettriche), lo scorso anno Pechino ha stanziato 9 miliardi di euro per incentivare l’acquisto di veicoli con motori a combustione fino a 2 litri di cilindrata.

Così, mentre l’Unione Europea spinge a tutta forza verso l’elettrificazione senza apparentemente valutare tutte le possibili conseguenze del caso – dalla dipendenza dei costruttori del vecchio continente da materie prime e batterie made in China, passando per la questione occupazionale – in Cina si sono incentivati i tradizionali motori bielle e pistoni. Ma non finisce qui: se è vero che in Europa gli eco-incentivi più cospicui messi a disposizione dai vari Stati spettano alle vetture elettriche, in Cina i bonus statali per l’acquisto di automobili a batteria sono stati ufficialmente cancellati a partire dall’inizio del 2023.

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