La recente cronaca giudiziaria ci consegna un quadro poco rassicurante del nostro sistema penitenziario. In particolare, due inchieste sulla malavita calabrese raccontano di detenuti che continuano a operare e che accrescono il loro peso criminale all’interno del carcere. Notizie che giungono poco dopo le proteste dei sindacati per i tagli all’amministrazione penitenziaria previsti nella legge di bilancio. Per un boss trapiantato a Milano (cosca Maiolo) gli anni passati in galera sono come un “biglietto da visita”, misura del suo potere sul territorio.

“Noi di anni ne abbiamo presi 24 – dice in una conversazione intercettata dalla Squadra Mobile – ma non ci siamo mai spezzati né ci siamo piegati”. Insomma, espiata la pena, il mafioso è più influente di prima, con una consolidata forza intimidatrice. “Noi abbiamo fatto la storia di Milano – dice un altro indagato – siamo sopra i libri, non è che siamo chiacchiere”. Poi c’è l’operazione che ha colpito la mafia di Rosarno: secondo le indagini dei carabinieri, il boss Umberto Bellocco – nipote di quell’Umberto Bellocco che nel 1981 tenne a battesimo la Sacra Corona Unita con le affiliazioni nel carcere di Bari – continuava a gestire la cosca dalla casa circondariale, grazie alla disponibilità di telefoni cellulari.

Insomma non è cambiato nulla da quando Luciano Violante spiegava che il carcere, per le organizzazioni mafiose, costituisce “il prolungamento del loro territorio”. Se per il delinquente comune la galera è senza dubbio un male, il boss mafioso dispone invece di un’organizzazione che gli consente di continuare a dirigere, seppure in forma attenuata, il sodalizio di appartenenza. Peraltro, in una certa cultura mafiosa – scrive Violante nel suo Non è la Piovra – Dodici tesi sulle mafie italiane (Einaudi, 1994) – “entrare in carcere è un segno di valore. Significa che si sono commessi reati gravi; è perciò abituale vantarsi delle detenzioni subite”.

Notizie di questo genere dovrebbero stimolare una seria riflessione sulla possibilità di una radicale riforma della giustizia penale – il modello della “giustizia riparativa” potrebbe rivelarsi più conveniente ed efficace pure contro la delinquenza mafiosa – ma anche solo suggerire di dedicare più risorse e maggiore attenzione al comparto penitenziario. Da un lato occorre garantire il rispetto delle regole, dall’altro il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

Anche il carcere può funzionare, nel suo ruolo di “risocializzazione” dei detenuti. A questo proposito, mi ha colpito molto una storia di molti anni fa rispolverata da Vanessa Isoppo nel libro G.W. Vizzardelli – Analisi psico-criminologica di un serial killer adolescente (Gammarò, 2022). È la vicenda di un pericoloso assassino, neanche maggiorenne, refrattario alle regole e insofferente alla vita scolastica, che negli anni di detenzione imparò l’importanza degli studi e del rispetto del prossimo. Ottenuta la libertà, non resse la nuova condizione di uomo libero e si tolse la vita. Un suicidio che, come precisa l’autrice, “racconta molto dell’uomo che è diventato”: “Ha fatto in modo di curare ogni dettaglio affinché il disagio pratico relativo al ritrovamento del suo corpo da parte dei familiari fosse limitato al massimo, in un estremo gesto di attenzione all’altro”.

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