Per fortuna che è finita così, con la rocambolesca vittoria dell’albiceleste ai Mondiali del Qatar. Altrimenti sarebbe scattato il lutto nazionale sulla sponda destra del Rio de la Plata. Perché il calcio, in larga parte di America Latina, funge da surrogato della religione civile a fronte di un carente sviluppo politico/culturale identitario di questi popoli. Vale per il Brasile, dove dopo la sconfitta in Coppa Rimet 1950, consumata nel Maracanà di Rio ad opera dell’Uruguay di Schiaffino e Ghiggia, la disperazione della torcida verde-oro arrivò a produrre 34 suicidi e 56 arresti cardiaci. Lo è – a maggior ragione – per la hincha argentina, in cui il gioco pallonaro svolge una funzione ancora più delicata. E per comprenderlo va approfondito il problema del rapporto tra calcio e società in terra australe; tema che francamente ho sentito affrontare dai nostri commentatori da stadio in maniera estremamente superficiale (un fatto esclusivamente ludico), contraddetta da mie esperienze personali in loco e parenti nati e vissuti a Baires.

Un tema che non solo per questo affronto con una punta di imbarazzo, temendo anche di incorrere nelle reprimende della mia figlia violinista in orchestre nazionali di milonga e che ogni verano si fionda alla Boca per migliorare la sua pur notevole abilità tanguera. Già irritata con questo padre rompiscatole che preferisce il Samba dell’ethos tropicalista alla ridda di sgambettamenti sempre a rischio di pestoni e all’enfasi di una danza intrisa dello spirito che Paolo Conte descriverebbe come “sensualità delle vite disperate”, ma che proprio per questo trasporta nel fiume emotivo delle sue note l’origine nei bordelli di fine Ottocento, sublimando “in un pensiero triste che si danza” la carica di risentimento da emigranti – prima i carcerati e il loro argot Lunfardo, poi i genovesi divorati dalla nostalgia – con la loro psiche violentata dalla perdita delle radici.

In questo porto di mare rappresentato dalla Boca del Riachuelo del los navios, il porto fluviale sorto nel XIX secolo, punto di arrivo di umanità in fuga dal proprio passato. Che giungeva a ondate ricorrenti, nel quartiere dove i nostri mazziniani scampati ai fallimenti dei moti indipendentisti e all’unificazione nazionale sotto i vessilli dei Savoia avevano creato tra il 1876 e il 1888 una vera e propria Repubblica Indipendente. Poi arrivarono gli anni Trenta della bonanza carnicera e dell’Argentina paese del bengodi; dove il Ristorante porteño Rancho Banchero attirava ai suoi tavoli clientele internazionali. Di Carlos Gardel in trasferta a Medellin. Stagione dorata destinata a una triste fine per le logiche di potere retrostanti a questa società sradicata e priva di coesione (a parte le camisetas delle squadre): la composizione dell’élite dominante e la sua logica dissipatoria delle risorse nazionali; la sua volontà di tenere la popolazione in condizioni di sudditanza psicologica. Perché il potere argentino è in mano a una classe latifondista con esclusiva vocazione all’accumulo di ricchezze improduttive: un patriarcato familista in cui il primogenito eredita la terra e il fratello minore viene avviato alla carriera militare, in quell’esercito che risulta l’unica organizzazione in grado di mantenere l’ordine e tutelare la proprietà.

Da qui la sequenza di golpe e intentonas che caratterizzano una storia senza sbocchi democratici e che esercita il controllo sociale pompando quel nazionalismo che trova terreno fertile nelle mentalità di chi è scivolato lungo il piano inclinato del mondo per arrivare fin lì. Con esiti sovente disastrosi. Ricordate la guerra contro l’Inghilterra per il possesso degli inutili scogli denominati Malvinas-Falkland, promossa dai generali golpisti e felloni Galtieri e Videla con funzioni puramente diversive? Ne sanno qualcosa le Madri de Plaza de Mayo dei desaparecidos. Ne sapevano qualcosa i miei zii con due figli militari contro gli inglesi, che a fine del conflitto non ne ebbero notizie per mesi.

Questo è il cuore di tenebra dell’Argentina, in cui il calcio è soltanto un aspetto della più vasta operazione di condizionamento nazionalistico reazionario; di cui sarebbe bene che il popolo argentino riuscisse a liberarsi, per fermare il costante scivolamento nel sottosviluppo. Me ne resi conto giovanissimo; invitato dal presidente del Rotary di Goja nella provincia di Corrientes, un estanciero a cui mio zio aveva confidato di avere un nipote liberale che sarebbe arrivato dall’Italia. Fu subito predisposta una mia conferenza in cui – da ragazzino ingenuo – avrei spiegato la teoria gobettiana dell’alleanza tra aristocrazie operaie e borghesi. Ricordo lo sguardo della moglie dell’ospite rivolto a mio zio: “Guai a te se mi porti in casa un altro comunista!”.

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