Cinema

The Fabelmans, i sogni e gli incubi di Steven Spielberg diventano un film stratosferico e imperdibile

L'opera è una sorta di summa retroattiva personale e metacinematografica assolutamente imperdibile. Nel casr Paul Dano e Michelle e Michelle Williams

di Davide Turrini

Volevamo avvisarvi che questo sarà uno dei tanti pezzi in vista dell’uscita di The Fabelmans (22 dicembre). Non che l’ultimo film di Steven Spielberg sia un capolavoro (difficile eguagliare Indiana Jones, ET, Lo Squalo, Duel, e tanto altro…), ma essendo un film grandissimo, un film stratosferico, una sorta di summa retroattiva personale e metacinematografica, ecco, sappiate che queste robe qui ci fanno andare giù di testa e abbiamo il dovere di comunicarvelo. The Fabelmans tra l’altro è un po’ un American Graffiti (finalmente) riuscito, un American Graffiti senza macchine, anzi con la macchina da presa.

Scomodiamo pure Vertov: l’uomo con la macchina da presa. A questo giro, insomma, niente recensione (quella arriva sotto l’albero), ma una sorta di preview, di antipasto, di analisi sull’uso della macchina da presa modello camera stylo e con la funzione di strumento di verità. The Fabelmans è un leggiadro coming of age ambientato all’inizio degli anni sessanta tra il New Jersey, Phoenix e infine la California settentrionale che ha al centro la figura di Sammy bambinetto (Mateo Zoryon Francis-Deford) che scopre sconvolto e rapito il cinema provando a ripetere e riprendere nella sua cameretta ciò che ha visto in sala (uno scontro tra treni ne Il più grande spettacolo del mondo); e Sammy ragazzino (Gabriel LaBelle) che inizia ad essere uno Steven Spielberg più maturo con le gambine corte, che gira in 8 e 16 mm e monta i suoi cortometraggi “amatoriali” (quello di fiction sulla carneficina su un campo di battaglia nazisti contro marines con un cast di coetanei; quello sulla madre svitata e fedifraga; quello sulla festa scolastica in spiaggia) che già sanno di azione, avventura, emozione, poesia e verità.

Sulla disaggregazione del concetto classico di famiglia, sulla capacità di omaggiare la sorpresa e la magia di fronte al fascio di luce della sala buia del cinema, ne parliamo prossimamente. Qui invece vogliamo prendere in mano la questione che scotta, lo scheletro di senso, il formalismo inquieto e antico dentro all’inquadratura del cineasta che sa soddisfare molti palati. Nonostante il padre (Paul Dano) lo definisca un hobby, il giovane Sammy ha il cinema nel sangue. E ce l’ha in quella chiave e versione realizzativa da New Hollywood anni settanta dove controllo e sviluppo di forma e contenuto trovarono un risultato naturale in una mitologica forma spettacolo. La vita scorre attorno a Sammy, i trasferimenti di casa per il lavoro di ingegnere del padre che cresce di ruolo professionale, la separazione tra i genitori, le cotte adolescenziali e il bullismo del college. Ovvero tutto l’armamentario di un classico racconto di formazione hollywoodiano. Ovvero la trama esteriore di The Fabelmans. Perché Sammy, e lo Spielberg adolescente che fu con lui, mostra il meglio di sé nel filmare ciò che lo circonda filtrando l’interiorità dei suoi protagonisti con un afflato artigianale e intenso che cela una verità superficialmente nascosta.

Con la 8 e la 16mm Sammy/Steven guarda, scruta, sviscera il brivido e la lacrima dell’epica militare, il melodramma della sofferenza sentimentale e psicologica di mamma, la performatività comico atletica eroica dei compagni di college. E ogni volta che fa? Mostro a loro, i protagonisti, e al pubblico chi sono davvero. Ne coglie l’essenza umana, fittizia, sensibile in profondità. E così se gli spettatori del filmino di guerra vanno in visibilio, mamma Mitzi (Michelle Williams) e il compagno apparentemente stronzo e gradasso Logan (Sam Rechner) sono imbambolati di fronte a come Sammy li ha saputi inquadrare, mostrare, far ri-vivere oltre la patina del quotidiano (paradossalmente oltre la trama di The Fabelmans) nel sogno di quel cinema semplice, povero, con la moviola e i pezzetti di pellicola appiccicati con lo scotch. Insomma, in questo immenso film che è The Fabelmans Spielberg ci insegna con un’autenticità che pare priva di sforzi, come andare con la macchina da presa all’essenza della verità di ciò che si vuole raccontare. Che Spielberg avesse perso il bandolo della questione ce ne eravamo accorti (War horse, Tintin, BFG, West side story). Che per tornarcelo a dire gli ci volessero i macchinari cigolanti da museo del cinema è una sorpresa che ci riempie di gioia. Anche solo per quei tre filmini dentro all’intero film, The Fabelmans è già titolo del nostro e dell’anno, forse degli ultimi cinque sei anni, assolutamente imperdibile.

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