L’ultima dal Cremlino sembrava essere l’apertura, per bocca del ministro degli esteri Sergei Lavrov, sulla possibilità di negoziati con rappresentanti dell’Occidente, con la premessa d’obbligo che la controparte non intenda “sopprimere” l’interlocutore. E l’eletto sarebbe questa volta, anche se pare a titolo esemplificativo, l’ex segretario di Stato John Kerry, “un vero partner di dialogo”, nonché “persona sinceramente interessata a un risultato che non sia unilaterale ma generale”.

L’investitura a sorpresa, se si può definire tale, di John Kerry ad interlocutore gradito ed auspicabile per Mosca è arrivata a di meno di 48 ore dal siluramento in veste di mediatore di Papa Francesco, già disponibile ad offrire la Santa sede per l’apertura di un tavolo negoziale.

L’attacco della Russia nei suoi confronti non solo per “essere russofobo” ma per aver “pervertito la verità” (Maria Zakharova, portavoce di Lavrov) e aver pronunciato “parole non cristiane” (secondo lo stesso Lavrov, testimone vivente di cristianità) è stato scatenato da una semplice precisazione: “Quando parlo dell’Ucraina parlo di un popolo martirizzato. Se hai un popolo martirizzato hai qualcuno che lo martirizza.” La condanna forte ed esplicita nei confronti di Mosca e il paragone delle sofferenze provocate dall’invasione, estremizzate dall’accanimento contro le strutture civili ucraine, con la grande fame e lo sterminio dell’Holodomor staliniano, sono bastati a squalificare irrimediabilmente l’offerta di mediazione della Santa sede.

Il santo padre, icona dei pacifisti solo se bolla la guerra come “una follia” o critica la Nato, ha avuto anche il torto imperdonabile agli occhi del Cremlino di individuare episodi specifici di brutalità e di orrore quando ha chiamato in causa le unità militari provenienti dalle province asiatiche “come i ceceni e i buriati”. Il riferimento non casuale era rivolto agli episodi non sporadici ma paradigmatici dei crimini contro i civili ucraini, oggetto di una formidabile manipolazione negazionista da parte dei russi, a Mariupol e a Bucha ad opera rispettivamente di Ramzan Kadyrov, leader ceceno noto come “il macellaio di Grozny”, e degli “eroi” caucasici, insigniti personalmente da Putin, che al comando del giovane colonnello “dalla faccia pulita” Omurdekov Asanbevovic hanno torturato e giustiziato alla periferia di Kiev decine di uomini, donne, bambini.

Per non non venir meno al suo prestigioso curriculum che include anche la gestione di un campo di concentramento per la tortura e l’eliminazione degli omosessuali, il fedelissimo Kadyrov – tuttora molto ascoltato da Putin anche se ritenuto un po’ “emotivo” per l’insistenza sull’atomica – si è sentito in dovere di attaccare direttamente il pontefice che non era stato sul generico e aveva colto nel segno: “Il Papa ha seminato odio e discordia tra i popoli … Prima dell’intervento della Nato non avevamo problemi con il popolo ucraino”. E di seguito si è scagliato contro gli istruttori della Nato, appartenenti “al gregge del Papa che cercano di trasformare il maggior numero possibile di militari ucraini in carne da cannone”.

Anche Sergei Lavrov, che nelle ultime ore sembrava aprire sulla possibilità di negoziati finalizzati a raggiungere risultati attraverso “un dialogo rispettoso”, è lo stesso che aveva definito il massacro di Bucha “una messinscena” fabbricata ad uso e consumo di Kiev e dell’Occidente, “una provocazione e una minaccia diretta alla pace e alla sicurezza internazionale”.

E comunque alle aperture di Lavrov al negoziato “strada preferita” sono seguite, a poche ore di distanza, le condizioni per aprire qualsiasi trattativa dettate dal portavoce di Putin: in primis il riconoscimento come russe delle regioni annesse con i referendum farsa, rigettati quasi all’unanimità dalla comunità internazionale in una assemblea generale dell’Onu dove solo 5 paesi (Russia, Bielorussia, Siria, Nicaragua, Corea del Nord) hanno votato a favore di Putin.

Che il riconoscimento dei referendum illegittimi sotto le bombe, in un clima di intimidazione, dopo le evacuazioni e le deportazioni, venisse usato come conditio sine qua non per sedersi al tavolo negoziale era prevedibile; ma nondimeno dimostra come sia strumentale e tattico il supposto slancio distensivo di Mosca.

Intanto piovono le bombe su Kherson e intorno a Zaporizhzhia, Putin magnifica di nuovo la sua “eccezionale potenza militare anche nucleare” e ambasciate e consolati ucraini di mezza Europa, tra cui quella di Kiev presso la Santa sede, sono diventati destinatari di orridi messaggi intimidatori: pacchi sanguinolenti con occhi di animali.

Se come chiedono i 5stelle di Conte, in prima linea contro la posizione guerrafondaia del governo dopo aver avallato i cinque precedenti invii di armi, l’Alleanza Verdi-Sinistra e come auspicherebbero larghi settori di Lega e Fi, non venissero rinnovate “le cessioni di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari all’Ucraina”, è chiaro che Kiev dovrebbe accettare, dopo dieci mesi di sacrifici disumani e di una resistenza eroica che nessun osservatore e analista aveva previsto, le condizioni capestro dell’invasore. E questi, con grande soddisfazione di quei “pacifisti” che fanno propri, diffondono e amplificano gli argomenti – se si possono definire tali – della propaganda e della disinformazione russa Putin, nonostante les dèbacles sul campo, avrebbe vinto.

Così finalmente regnerebbe la pace tanto agognata, a cui si frapporrebbe unicamente l’Occidente bellicista, che “ha dato prima gli ucraini in pasto ai russi e ora li usa come testa d’ariete” secondo Alessandro Orsini, una delle più seguite “colombe” da talk show, impareggiabile nell’affrontare, sovrapporsi e fustigare i malcapitati “bellicisti” (il riferimento all’ultima performance del professor Orsini a CartaBianca è puntuale.)

Solo che i campioni e i fenomeni del pacifismo strabico sorvolano su un “dettaglio” non proprio irrilevante: e cioè che noi non vivremmo tutti felici e contenti una volta messi a cuccia gli ucraini arroganti e “nazisti” e dopo esserci alleggeriti del caro bollette, con l’allettante prospettiva di essere in breve tempo di nuovo dipendenti dal gas russo ed avvinghiati come prima e più di prima all’amico Putin. Per il semplice motivo che al di là di elementari considerazioni etiche e giuridiche, a cui i fan di Orsini non mi sembrano eccessivamente inclini, una pace iniqua ed imposta all’aggredito sarebbe fragile e temporanea con il rischio concreto di una balcanizzazione della regione, come ha segnalato in più occasioni anche Lucio Caracciolo, e la probabilità di ulteriori conflitti in aree più estese e ancora più vicine a noi.

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